Garimberti, lei ha iniziato la carriera giornalistica a Bruxelles, prima in Ap.Biscom e poi all’Ansa. A inizio 2014 è stato nominato portavoce del Semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea. Nel 2015 è tornato ad Ansa, quindi nel 2016 l’approdo in Alitalia. Come è stato l’impatto nel gestire dalla primissima fila la comunicazione di un primario vettore aereo? C’è un ‘fil rouge’ che lega le sue precedenti attività professionali con quella in Alitalia o è prevalsa la discontinuità? Quali delle sue esperienze precedenti le è stata più utile per gestire la comunicazione Alitalia? Cosa le ha insegnato di particolare quest’ultima esperienza fino a questo momento?
L’impatto è stato forte: Alitalia è un’azienda molto particolare, sempre sotto i riflettori. Le precedenti esperienze aiutano e sono sempre utili: alcuni ambiti di attività sono cambiati, ma il sistema dell’informazione, nonostante le novità tecnologiche, non è così diverso: continua ad avere le sue leggi e le sue dinamiche ed essere stato, da giornalista, parte di questo ingranaggio aiuta a capirne il funzionamento. La comunicazione è come una partita a scacchi: per giocare bene, devi essere in grado di prevedere le mosse successive. Allo stesso tempo, per chi viene dal giornalismo, è bene tener presente che si è passati dall’altra parte della barricata.
Quali sono gli ingredienti essenziali di un buon comunicatore, ‘istituzionale’ o non? In particolare, davanti a una notizia negativa per il gruppo o l’ente per cui lavora, qual è il suo modo di procedere? E davanti a una positiva? Fino a dove si può smussare una notizia negativa e fino a dove si può ‘esaltare’ una positiva in termini di impatto comunicativo? Il suo punto di vista è particolarmente interessante perché, nella sua vita professionale giornalistica, si è trovato in entrambe le ‘barricate’: quella del destinatario di comunicazione ‘istituzionale’ (pubblica o privata) e quella di creatore di comunicazione ‘istituzionale’ (pubblica o privata), così da avere una visione a tutto tondo.
In primo luogo autorevolezza e credibilità. E questo vuol dire essere trasparenti: con i media, naturalmente, ma anche con il pubblico nel caso delle comunicazioni dirette sui social network. Nascondere, o peggio depistare, serve a poco. Anzi, è controproducente: i giornalisti smettono di chiamarti e se lo fanno diventi irrilevante. Questo naturalmente non significa essere un libro aperto, ma semplicemente rispettare le regole deontologiche. Solo così si resta autorevoli e se si è credibili le proprie argomentazioni hanno maggiore forza. Quanto alle brutte notizie, esiste sempre un modo per spiegare quello che è successo e argomentare le ragioni dell’azienda. E ciò può significare anche dover ammettere un errore.
L’impatto dell’innovazione digitale in questi anni ha cambiato profondamente, e lo farà ancora di più in futuro, il mondo della comunicazione. Siamo saltati in meno di 20 anni ad un’altra era in cui i vecchi ‘ferri del mestiere’ non valgono più, oppure restano fondamentali, anche se vanno aggiornati al ‘mondo nuovo’?
So di andare controcorrente, ma credo che i cambiamenti che ci sono indubbiante stati negli ultimi anni non abbiano modificato la macchina dell’informazione. Per restare all’analogia, l’auto è più veloce, il motore più potente, molti comandi sono elettronici, ma alla fine si guida sempre con un volante e su quattro ruote. Gran parte dell’informazione che troviamo in rete o sui social, ha la stessa fonte primaria di quando internet non esisteva: le agenzie di stampa. Sono ancora loro a dominare gran parte dell’informazione che leggiamo, ascoltiamo in radio o tv, o ‘scrolliamo’ sui social. Tutto il resto ha un impatto limitato. Certo, nel caso dell’aviazione civile, ogni passeggero può essere un fotoreporter, nel senso che con lo smartphone può registrare immagini o scattare a bordo. E di ciò bisogna tener conto. Ma sono casi limite.
La società è cambiata e sta cambiando. Una recente indagine del Censis, dal titolo ‘Miti dei consumi, consumo dei miti’, afferma che oggi, “per catturare mente, cuore e portafoglio del nuovo consumatore occorre inseguirlo nel suo tour tra i diversi canali di comunicazione”. Siamo ben al di là della targhettizzazione dei segmenti di mercato, molto usata nella comunicazione per far passare notizie e messaggi in modo efficace. E magari con un linguaggio appropriato per ogni target. Come impatta la trasformazione di cui parla il Censis a livello di comunicazione? E in particolare come impatta nella comunicazione delle compagnie aeree, che si muovono in un mercato ad alto tasso di concorrenza?
Ogni canale ha i suoi linguaggi. Un comunicato stampa non è un tweet. E una foto su Instagram non è un post di Facebook. Ma importante tanto quanto la comunicazione in sé è la platea a cui ci si rivolge: per rendere efficace un messaggio bisogna innanzitutto chiedersi a chi si sta comunicando.
Una volta si diceva che per fare il comunicatore occorre ovviamente specializzarsi, ma ancora più importante – anzi fondamentale – è essere una sorta di ‘annusatore’, dotato di una buona cultura di base, con uno sguardo a 360 gradi per cogliere i cambiamenti e, semmai, riuscire ad anticiparli. Insomma, specializzato ma non troppo. Questo è ancora valido, è ancora più valido, oppure è diventato un lavoro per super specializzati?
La verità è nel mezzo. Spesso si sottovalutano gli aspetti tecnici della comunicazione. Come nasce, si diffonde e circola una notizia. E solo un professionista che conosce a fondo il sistema dell’informazione riesce a prevedere l’impatto di un evento e studiare le mosse successive. D’altra parte è vero che il comunicatore, per farsi capire da giornalisti e grande pubblico, deve mantenere quella giusta distanza che gli consente da un lato di farsi capire da tutti e dall’altro di trovare la formula migliore (qualcuno direbbe lo “storytelling”) per arrivare a tutti.
Una domanda che si collega alle precedenti. Lei ha affermato che è molto importante “farsi domande scomode e riuscire a dare risposte a queste domande”. Parole che sono un inno alla creatività. Può farci un esempio?
E’ quello cui accennavo prima: il comunicatore deve prevedere le mosse successive e per farlo deve ragionare come un giornalista. Sapere dove vogliono andare a parare, le domande che potrebbero fare, le cose che interessano. Solo così si può essere sempre un passo avanti.
Qual è a suo giudizio l’atteggiamento che i vertici aziendali debbono avere nei confronti del loro staff di comunicazione per poter permettere a quest’ultimo di esprimere al meglio le sue potenzialità? Su questa base, nota divergenze tra l’atteggiamento medio dei vertici aziendali di primarie società italiane e quello esistente in media in altri Paesi sviluppati? In altre parole, chi è più avanti?
E’ molto soggettivo. Durante la mia esperienza come portavoce del Semestre europeo di presidenza dell’Ue, ho avuto modo di vedere come lavorano gli staff di comunicazione di molte cancellerie europee. E non ho notate differenze legate ai paesi, ma semmai alle persone. Nelle aziende è cruciale la fiducia nello staff della comunicazione: non tutto è ‘comunicabile’: nel senso che a volte le aziende tendono a considerare notizie novità che ai media non interessano o, al contrario, rischiano di sottovalutare eventi che possono far notizia. La fiducia è quindi un elemento essenziale.
Ci sono gruppi che operano in mercati più o meno protetti ed altri che invece operano nei mercati aperti. Ciò ha un impatto sulla comunicazione nei due ambiti o i meccanismi sono sostanzialmente gli stessi?
Essere monopolisti non mette al riparo dalle critiche e la reputazione di un’azienda, anche se non ci sono concorrenti, è un valore irrinunciabile per chiunque. Anche per i monopolisti. Quindi comunicare bene resta essenziale; per tutti.
Dottor Garimberti, in conclusione ci può indicare alcuni aggettivi che, a suo modo di vedere, debbono qualificare un buon ‘comunicatore’ di un grande gruppo.
6Autorevole, credibile e ... molto paziente.