Intervista ad Aurelio Mezzotero, neo-partner della SGR leader in Italia nella gestione di fondi chiusi di Venture Capital

- di: Germana Loizzi
 

Aurelio Mezzotero, 47 anni, si occupa da oltre tredici anni di investimenti in società tecnologiche. Bocconiano con MBA all’Insead di Fontainebleau, ha iniziato la sua carriera in Gemini Consulting, società di consulenza strategica internazionale. Dopo un’esperienza in Banca Mondiale a Parigi e Washington, nel 2007 è rientrato in Italia per avviare per conto del Gruppo Intesa Sanpaolo il fondo Atlante Ventures, uno dei primi veicoli di investimento di questo tipo nel nostro paese. A inizio di quest’anno, conclusa una esperienza di successo come direttore generale di Italian Angels for Growth, è entrato in Innogest Capital, come partner.

Si parla tanto di Venture Capital ultimamente. Ci racconta di cosa si tratta e in cosa differisce da altre forme di investimento?
Il Venture Capital, nato negli Stati Uniti nel dopoguerra, è una forma di investimento tutto sommato semplice e intuitiva, che consiste in un patto fra un imprenditore e un finanziatore per sviluppare una startup. Ma non una startup qualsiasi: perché il gioco funzioni, infatti, il progetto alla base deve avere eccezionali prospettive di creazione di valore.
Ed è per questo che solitamente le operazioni sono frequenti in settori ad elevata tecnologia, come il digitale e il biotech, dove si può far crescere il fatturato esponenzialmente.

Quali sono i termini di questo patto?
L’intesa prevede che l’imprenditore apporti ingredienti fondamentali come idea di business, conoscenze, capacità operative ed eventuali brevetti, mentre il venture capitalist mette sul tavolo i capitali necessari per far partire l’iniziativa e tutta la sua rete di contatti e esperienze.
Si tratta di un fidanzamento a tempo, visto che entrambi i partner devono acconsentire fin dall’inizio, attraverso appositi accordi di investimento, a che la startup venga valorizzata in un tempo non lunghissimo, compreso tipicamente fra tre e sette anni.

Sembra un accordo equo. Ma perché queste aziende in fase di costituzione non vanno in banca a chiedere un mutuo?
Perché le banche non sono attrezzate per correre questo tipo di rischi, in quanto tipicamente richiedono che ciascun finanziamento sia garantito da un asset tangibile e liquidabile (per fortuna che sia così, si potrebbe aggiungere). Il venture capitalist, invece, non chiede nulla di tutto questo, ma accetta di entrare in società con l’imprenditore, e corre così pienamente il rischio d’impresa.

Queste operazioni di finanziamento funzionano sempre?
Non sempre, le statistiche dicono che anche gli investitori più bravi sbagliano spesso e volentieri. Grosso modo il 40% delle startup finanziate arrivano ad una exit più o meno soddisfacente. Il resto viene liquidato oppure vivacchia.
Ciò peraltro è conosciuto e accettato dagli investitori, che tollerano gli insuccessi perché gli investimenti vincenti (cioè le quattro aziende su dieci) spesso consentono di portare a casa rendimenti in abbondanza, che compensano largamente queste perdite.

Quanto vale il mercato di venture capital internazionale?
I capitali che continuano ad affluire copiosamente verso questo settore. Nel 2018 negli USA hanno sfondato il muro dei 130 miliardi di dollari secondo i dati della National Venture Capital Association, mentre l’Europa, su cui pesa un ritardo di almeno una generazione rispetto agli Stati Uniti, ha raggiunto il risultato lusinghiero di oltre 20 miliardi di euro.

E l’Italia?
In Italia questo tipo di investimenti è partito con ritardo, ma si sta sviluppando con buoni tassi di crescita, soprattutto nell’ultimo anno dove ha raggiunto, secondo la società di ricerca Dealroom, 500 milioni di euro, di cui quasi 100 a favore di società partecipate da Innogest.
Nel passato i capitali che affluivano verso questo settore sono stati insufficienti, in parte a causa di una mancanza di reali opportunità di investimento, problema oggi superato, e in parte per un naturale atteggiamento di diffidenza degli investitori istituzionali verso queste novità.
Negli USA la dimensione dei Fondi è esplosa a cavallo del 2000 grazie ad un avvicinamento fra fondi di venture capital e i grandi fondi pensione, come CALPERS, il fondo dei dipendenti pubblici della California. E’ probabile che anche da noi, i volumi di investimento potranno almeno raddoppiare nei prossimi due o tre anni, a patto di attrarre verso il VC, come in America, i fondi pensione o altre forme di risparmio previdenziale o gestito “a lunga maturazione”.
Al momento, tuttavia, la realtà è che in Italia le società specializzate non superano le cinque o sei unità.

Una di queste è Innogest, la SGR che da poco la ha accolta come partner.
E’ vero, Innogest è una delle realtà con maggiore storia in questo settore, essendo stata avviata nel 2007. Da allora ha raccolto e gestito tre fondi chiusi, Innogest I, Innogest II e IPgest, dal valore complessivo di circa 200 milioni di euro, raccolti presso investitori istituzionali, banche e fondazioni.
Ha già realizzato diverse exit, cioè cessioni integrali delle partecipazioni, come SingularID, società con una innovativa soluzione software e nanotecnologica nel settore dell’anticontraffazione o SiliconBiosystem, leader mondiale nella diagnostica oncologica acquisita dal Gruppo Menarini.

Fra le aziende in cui avete investito ci sono realtà innovative molto note come Supermercato24, leader nella consegna della spesa a domicilio, o Erydel, che ha brevettato un trattamento per alcune gravi malattie utilizzando gli stessi globuli rossi del paziente come vettori del farmaco. Come stanno andando?
Stiamo lavorando per continuare a sostenere lo sviluppo di entrambi i progetti e dare soddisfazione ai sottoscrittori dei nostri fondi.

Perché ha deciso di iniziare questa nuova avventura?
Ho deciso di aderire al progetto Innogest innanzitutto per le sue persone.
La squadra di partner nell’area digitale conta Stefano Molino, che ha una lunga esperienza in Innogest e con cui ho co-investito con soddisfazione nel passato, e Richard Belluzzo, che è un partner d’eccezione perché è stato un grande manager internazionale, avendo guidato insieme a Bill Gates e Steve Ballmer la Microsoft a Seattle negli anni d’oro. Richard apporta expertise operative e tecnologiche che è difficile trovare in Italia e ci darà una grossa mano nella selezione e nella gestione degli investimenti.
Il nostro modo di lavorare sulle startup coincide, e questo è quello che è stato decisivo per me.

Quali sono i cardini del vostro approccio?
Tutto comincia da un processo molto rigoroso alla selezione delle startup su cui investire. Approccio che tutela i capitali dei nostri sottoscrittori in primis, ma anche noi stessi partner, visto che investiamo i nostri risparmi nel fondo stesso e guadagniamo solo se il fondo è in positivo.
Dopo la fase di investimento, non perdiamo occasione per aiutare il team imprenditoriale a capo della startup, cercando di soddisfare praticamente tutte le sue richieste.
Che si tratti di mettere a disposizione le nostre expertise operative, introdurre la società a un cliente potenziale o semplicemente portare nuovi investitori a bordo, cerchiamo sempre di dare il nostro contributo. E penso che le nostre società in portafoglio apprezzino.

Progetti per il futuro?
Il lancio di un nuovo fondo da 120 milioni di euro dedicato al digitale innovativo. Questo fondo investirà circa il 60% delle sue risorse in realtà later stage, cioè più mature, ma con un grande potenziale di business ancora non espresso.
In tutto contiamo di prendere partecipazioni in circa quindici società, fra aziende appunto late stage e realtà più embrionali, in fase startup vera e propria (Round A/B Stage).

Si tratta di un obiettivo di raccolta considerevole per l’Italia. Come pensate di raggiungerlo?
In realtà abbiamo già diversi investitori interessati. Un risveglio di interesse è stato stimolato anche dai recenti provvedimenti a favore del venture capital contenuti nella legge di bilancio 2019, che nasce dal giusto presupposto che l’industria tecnologica promossa dal venture capital sia il migliore antidoto contro il pericolo di stagnazione economica.
In questa legge ci sono diverse norme pro-innovazione. Vorrei citarne due in particolare che mi fanno essere ottimista per il 2019: L’istituzione di un importo minimo del 3,5% che i gestori dei Piani di Investimento Individuale (P.I.R) devono allocare in fondi di venture capital, e il beneficio fiscale del 50% a favore di una azienda che acquisisca l’intero capitale sociale di una startup.

Da ultimo le chiedo un pronostico. Quali saranno le innovazioni più sorprendenti che emergeranno nel 2019?
Penso che l’Italia deve continuare a fare quello che sa fare bene, e cioè dettare le tendenze e stare all’avanguardia nel campo del design, della meccatronica, della mobilità sostenibile (Milano per esempio è oggi una delle più avanzate città al mondo nel campo del bike e car sharing).
Ciò che prevedo è che, per fare ciò, dovrà ricorrere a nuove tecnologie trasversali come l’intelligenza artificiale e i sistemi di smart manufacturing di tipo Industria 4.0. E con Innogest saremo a fianco di chi ha buone idee e volontà di provarci.

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