Lo stop alla quotazione di Golden Goose alla Borsa di Milano, le possibili ragioni del ritiro e l’avidità

- di: Alberto Gustavo Franceschini Weiss
 

Golden Goose doveva venire quotata fra due giorni e invece si è ritirata. Doveva essere la più grande #IPO a Milano… Come ha detto Renzi, “first reaction: Shock!”. La causa sarebbe “il significativo deterioramento delle condizioni di mercato a seguito delle elezioni del Parlamento europeo (…) e la convocazione delle elezioni politiche in Francia". l’IPO prevedeva un collocamento oscillante tra 520 e 560 milioni di ero, suddivisi in 420/460 mln nelle tasche di Permira e 100 mln – come aumento di capitale - nelle casse aziendali di Golden Goose.

Lo stop alla quotazione di Golden Goose alla Borsa di Milano, le possibili ragioni del ritiro e l’avidità

Il collocamento, già chiuso da giorni, aveva visto una domanda 4 volte superiore all’offerta, nella parte bassa della forchetta, con un singolo investitore che si era prenotato ben 100 milioni. L’operazione sembrava conclusa con un felice esito, nonostante che Golden Goose sia indebitata con le banche per oltre 460 mln: solo 100 milioni sarebbero entrati in azienda e sarebbe rimasto, quindi, un debito significativo, non certo in grado di consentire una crescita seria e sana.

E allora perché si è ritirata? Varie sono le interpretazioni, ma le più “gettonate” sono due: la prima è che la valutazione attribuita dagli investitori a Golden Goose sia stata considerata “striminzita” per gli avidi partners di Permira: 8,5 volte l’Ebitda non è considerato sufficiente per chi è abituato a moltiplicatori del lusso superiori a 10. La seconda è che l’andamento delle vendite di Golden Goose non stia andando come previsto e quindi Permira si sarebbe trovata a controllare una società la cui azione, post deludente semestrale 2024, sarebbe crollata. E siccome Permira ha già “fregato” il mercato con Dr. Martens, che in tre anni ha perso l’80% del valore, non avrebbe potuto permettersi un’altra figuraccia (eufemismo).

In entrambi i casi si tratta di avidità, solo ed esclusivamente di avidità. E questa è l’ulteriore conferma che per i fondi di private equity la Borsa non è il giusto canale di smobilizzo dei loro investimenti quando detengono la maggioranza. Sono troppo focalizzati sul proprio “IRR”, anziché sulla crescita del valore dell’impresa. In più, le aziende che i private equity portano in quotazione sono quasi sempre straindebitate perché arrivano da operazioni di LBO. Considerando che la maggior parte di questi collocamenti è fatta da azioni vecchie di proprietà dei fondi di private equity, la quotazione non riduce quasi mai l’indebitamento, il che ne frena le potenzialità di crescita futura.

Diversa è la situazione delle imprese di proprietà dei fondi di venture capital, soprattutto di quelli americani, per cui le valutazioni stellari danno ampi margini di negoziazione con i nuovi sottoscrittori delle IPO. E, in più, la maggior parte non sono indebitate. Le quotazioni in Borsa danno la massima soddisfazione agli investitori quando il socio di controllo è l’imprenditore, che presenta al mercato una propria visione strategica e si vuole far affiancare da nuovi soci. Se l’obiettivo è la vendita immediata, la Borsa non va bene.

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