La Francia brucia, ma non solo per la brutale uccisione di Nahel

- di: Redazione
 
Ancora una notte di violenze in Francia, sconvolta, dapprima dalla morte inutile, gratuita e insensata di un ragazzo, che non meritava certo di crepare per avere cercato di sfuggire ad un controllo di polizia, poi dall'ondata di proteste e devastazioni che ad essa sono seguite.
Ridurre tutto al giusto sdegno per quello che ha fatto l'agente (un video lo ha mostrato sparare a bruciapelo a diciassettenne Nahel) è però profondamente sbagliato perché rimanderebbe la genesi delle proteste, anche molto violente e indiscriminate, solo ad un episodio, quando invece in esse si ritrovano tutte le frange del dissenso che larghi strati della società francese nutrono nei confronti di un governo e del presidente Macron, incapaci di capire un malessere che è profondo e che si riaccende, ciclicamente, prendendo spunto da un singolo evento, come appunto la morte del ragazzo.
Quello irrisolto dell'integrazione è un problema, ma non è certamente il solo alla radice dell'esplosione di rabbia che ha portato in piazza e sulla strada decine di migliaia di francesi che colgono ogni occasione per ribadire che ormai il baratro tra loro e la classe politica sia incolmabile.

La Francia brucia, ma non solo per la brutale uccisione di Nahel

Senza andare troppi indietro negli anni, la violenza di queste ore è la stessa dei 'gilet gialli', è la stessa dei camionisti, è la stessa, per andare a tempi più recenti, di insegnanti e studenti che oramai vivono con quotidiano dolore una crisi che, prima ancora che economica, è sociale e che vedono il loro futuro incerto dopo la contestata riforma del regime pensionistico.
I disordini nelle banlieu (che non sono un luogo solo fisico di emarginazione, ma un incubatore di dolore e rivendicazioni, di percezione delle differenze e di voglia di conquista un benessere sempre lontano) seguono un percorso già scritto, ma non sono alimentati solo da ragazzi che vivono in un mondo tutto loro, dove non esistono le regole, ma solo quando sono in tanti, quando intorno ad una idea si raccoglie il branco.

A raccontare quanto sta accadendo non bastano solo i numeri: a oggi, 660 persone arrestate; 249 operatori delle forze di polizia feriti; centinaia di esercizi commerciali attaccati, devastati, saccheggiati; decine e decine di incendi, come quelli che hanno distrutto molti municipi. A raccontarlo è soprattutto l'inadeguatezza che il governo sta mostrando a fronteggiare quella che è ormai una vera emergenza. Solo per fare un esempio, se l'arresto dell'agente che ha assassinato a sangue freddo Nahel era doveroso, per rispetto per la vittima e la sua famiglia, rimandando il giudizio all'esito delle indagini della magistratura, ora a protestare sono i sindacati di polizia, secondo i quali la messa sotto accusa del loro collega è stata una risposta emotiva, adottata quando ancora l'accertamento della verità è lontano dall'essere completato.
''Il nostro collega è stato messo alla berlina per calmare i rivoltosi che attaccano la Repubblica e comprare la pace sociale", ha detto Davido Reverdy, sindacalista nazionale degli agenti di polizia, aggiungendo che ''la nuova ondata di violenza a cui stiamo assistendo dimostra che non è stato comprato nulla''.

In parole povere, le organizzazioni sindacali di polizia accusano il governo di ingerenza nei procedimenti giudiziari in corso e denunciano le "pressioni" esercitate sui magistrati dopo le dichiarazioni rilasciate da alcuni suoi esponenti e dal Capo dello Stato. Cioè, la risposta della magistratura, piuttosto che sulla base di inequivocabili evidenze giudiziarie, è stata una conseguenza delle posizioni in seno al governo e, su su, fino all'Eliseo.
Dal territorio il bilancio delle devastazioni si aggiorna ora dopo ora, e dalla provincia arrivano segnali dell'irrequietezza che si è creata, alla quale contribuiscono elementi esterni al malessere e alle proteste per la morte di Nahel. Come sta accadendo a Tolosa, dove il prefetto ha impedito un comizio il cui esito violente sarebbe stato reso evidente dal fatto che in città sono arrivati ''elementi radicali'', intenzionati a raggiungere il centro della città, con il potenziale pericolo di ulteriori devastazioni. A mettere ulteriori elementi di inquietudine è giunta la decisione del presidente Macron di abbandonare in anticipo i lavori del vertice europeo, per tornare a Parigi. Appare abbastanza chiaro che lo Stato si sente sfidato e che non può arretrare davanti ad una ondata di disordini che appare inarrestabile ormai da tre giorni.

Il primo ministro, Elisabeth Borne, ha detto che il governo esaminerà "tutte le ipotesi", "con una priorità : il ritorno dell'ordine repubblicano su tutto il territorio". Una affermazione che sembra anticipare una risposta molto forte in termini ''pratici''. Anche perché a destare più di una domanda è il fatto che gli accadimenti di queste ore sembrano mostrare una inquietante contemporaneità, quasi che a muoverle sia non tanto un obiettivo condiviso (la protesta), ma una regia condivisa e capace di spostare centinaia di persone, gran parte delle quali mostrano non solo rabbia, ma quasi una consuetudine alla distruzione. Ed è questo forse l'elemento che più impaurisce Macron e la sua corte, che hanno mobilitato 40 mila agenti.
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