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La Cina risponde a Trump svalutando lo yuan ai minimi dal 2007. E ha in mano l’arma dell’Armageddon

- di: Bruno Coletta
 
La Cina risponde a Trump svalutando lo yuan ai minimi dal 2007. E ha in mano l’arma dell’Armageddon
Pechino rilancia la guerra valutaria per difendersi dai dazi e colpire l’export Usa. Valuta ai minimi, economia in affanno e lo spettro di una vendita di massa di titoli di Stato americani (Treasury).

Di fronte alla nuova raffica di dazi americani, la Cina ha deciso di giocare sul tavolo dei mercati valutari. Lo yuan è scivolato oggi ai minimi da dicembre 2007, toccando quota 7,338 nel cambio con il dollaro, mentre la Banca Popolare Cinese ha fissato il tasso centrale a 7,2092 – livello più debole dal settembre 2023. È la sesta svalutazione consecutiva in altrettante sedute: una mossa che segna la risposta più netta di Pechino alle politiche commerciali di Donald Trump.
La decisione segue l’annuncio dell’amministrazione statunitense di alzare al 125% i dazi su una vasta gamma di prodotti cinesi, escludendo Pechino dalla moratoria di 90 giorni concessa ad altri partner. Per il governo cinese, una svalutazione controllata dello yuan serve a mantenere competitivo l’export e a neutralizzare l’effetto delle tariffe. Ma il messaggio è anche politico: Pechino non intende subire passivamente l’offensiva americana.
“La Cina risponderà in modo proporzionato per difendere la propria sovranità economica”, ha dichiarato He Yadong, portavoce del ministero del Commercio.

Un’arma a doppio taglio
Lo yuan debole dà respiro ai produttori cinesi, rendendo i beni più appetibili all’estero. Ma la mossa non è priva di rischi: gli analisti temono un’accelerazione dei deflussi di capitale, pressioni sul sistema bancario e instabilità nei mercati. Il cambio onshore è sceso oggi fino a 7,3518, mentre l’offshore yuan ha toccato quota 7,4288, il minimo storico.
La Cina sta anche affrontando una fase di stagnazione interna: a marzo, l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% rispetto all’anno precedente, segnando il secondo mese consecutivo di deflazione. Ancora più preoccupante il calo dei prezzi alla produzione, in flessione del 2,5% su base annua – la peggiore contrazione da novembre 2024 e il 29° mese di fila con segno negativo.

Pechino valuta la carta estrema: vendere debito Usa
Ma nel braccio di ferro con Washington, la Cina conserva una leva potenzialmente destabilizzante: il portafoglio di titoli del Tesoro americano. Secondo i dati ufficiali, Pechino detiene ancora circa 750 miliardi di dollari in Treasury – una cifra in calo rispetto al picco di oltre mille miliardi, ma sufficiente a scuotere i mercati. Un’arma dell’Armageddon che sarebbe un colpo micidiale per gli Usa ma che provocherebbe in tutto il mondo, con pesanti effetti anche sulla Cina, una tempesta finanziaria ed economica da superare la Grande Recessione del 1929.
“La possibilità che la Cina venda massicciamente bond Usa è remota, ma non più impensabile”, osserva l’economista Michael Pettis della Beijing University. “Un’ondata coordinata di dismissioni farebbe schizzare i rendimenti e metterebbe sotto pressione il debito federale americano”.
Anche se finora Pechino ha evitato mosse drastiche per non danneggiare il valore delle sue stesse riserve, il deterioramento delle relazioni con Washington sta modificando le priorità strategiche. E un segnale in tal senso potrebbe già essere arrivato: secondo indiscrezioni raccolte da Bloomberg, a marzo la Cina avrebbe ridotto le sue partecipazioni di oltre 20 miliardi, il calo più netto dal 2022.

La politica monetaria resta appesa al filo
Intanto, la Banca Popolare Cinese oscilla tra prudenza e necessità di stimolo. Gli analisti di ING ricordano che durante le Due Sessioni di marzo il governo ha promesso una politica monetaria “moderatamente espansiva”, ma senza forzature. Con un’inflazione negativa e la fiducia degli investitori in calo, la finestra per tagli dei tassi e del coefficiente di riserva obbligatoria si sta aprendo rapidamente.
“Riteniamo che il secondo trimestre vedrà un’accelerazione delle misure di sostegno, inclusi tagli mirati e nuove iniezioni di liquidità”, scrive ING in un report.

Verso una nuova guerra globale delle valute
La mossa cinese rischia di innescare una reazione a catena. Il dollaro ha registrato un’impennata rispetto alle valute asiatiche, mentre l’euro e lo yen si sono indeboliti. A Hong Kong, l’indice Hang Seng ha chiuso in calo del 2,1% e i CDS sul debito sovrano cinese sono ai massimi da gennaio.
Nel frattempo, a Washington si fa strada l’ipotesi di misure ritorsive contro la manipolazione valutaria. “Se la Cina gioca sporco, risponderemo con forza”, trapela dagli ambienti governativi, rilanciando l’idea di una nuova black list per i paesi che manipolano artificialmente il proprio cambio.
La guerra commerciale è ormai solo una parte della partita. Sui mercati valutari si combatte una guerra parallela, più silenziosa ma altrettanto devastante. E la Cina ha appena mostrato di essere pronta a usare tutte le armi a disposizione.

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