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Familiari senza giustizia: dopo il femminicidio restano soli anche con lo Stato

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Familiari senza giustizia: dopo il femminicidio restano soli anche con lo Stato

C’è un momento preciso in cui la vita si spacca in due: quando squilla un telefono, quando arriva una volante, quando qualcuno dice quella parola, “uccisa”. Da quel momento, chi resta – genitori, fratelli, sorelle, figli – entra in un tempo sospeso. Tutti chiedono com’è successo, chi era lui, quanti anni aveva lei. Nessuno chiede: e tu, come stai? Il lutto dei familiari delle vittime di femminicidio è un terremoto silenzioso che dura anni. E, nella maggior parte dei casi, lo Stato non c’è.

Familiari senza giustizia: dopo il femminicidio restano soli anche con lo Stato

C’è un fondo. Sempre un fondo, dicono. Una cifra una tantum, poco più di settemila euro, a cui si può accedere se si ha pazienza e resistenza. Perché la trafila è lunga, serve dimostrare di aver diritto, documentare spese, rientrare nei parametri. In pratica: ti ammazzano una figlia e devi metterti in fila con i documenti in mano. Come se avessi perso un cellulare, non un pezzo di cuore.

Le leggi ci sono. Dal 2016 esiste il Fondo di solidarietà per le vittime di reati intenzionali violenti. È gestito dal Ministero dell’Interno, ed è pensato per risarcire, almeno in parte, chi ha subito un crimine come un femminicidio. Ma i fondi sono pochi, i tempi sono lunghi, l’assistenza è assente. Nessuno ti guida davvero. Se non hai un avvocato, un’associazione, qualcuno che sappia muoversi, sei perso.

Per gli orfani, soprattutto se minorenni, c’è qualcosa in più. Dopo anni di battaglie, è nato il Fondo per gli orfani di crimini domestici. Borse di studio, assistenza psicologica, sostegno economico. Ma anche qui nulla è automatico. Tutto va richiesto, ottenuto, giustificato. Non c’è una mano che ti prende e ti accompagna. C’è un sito, un numero, un modulo. A volte c’è silenzio.

I Comuni fanno il possibile, o almeno ci provano. Alcuni pagano il funerale, altri offrono supporto psicologico. Ma si tratta di iniziative locali, non coordinate. Non esiste una rete nazionale. Non esiste un protocollo che dica: dopo un femminicidio, questi sono i passi. E così succede che chi perde una figlia si ritrova a organizzare un funerale con i soldi degli amici, a cercare uno psicologo privato per il nipote, a tornare a lavorare dopo tre giorni perché non ha più ferie.

Il dolore, intanto, cambia forma. C’è chi lo trasforma in rabbia, chi in silenzio. Alcuni genitori diventano attivisti. Fondano associazioni, parlano nelle scuole, chiedono leggi. Altri smettono di uscire. Spezzano i contatti, smettono di parlare di lei. Nessuno gli ha spiegato come si fa a sopravvivere a una figlia uccisa. Nessuno ha detto loro che si può anche impazzire un po’. E che va bene così.

Poi ci sono i bambini. Orfani due volte. Della madre, e del padre, che nella maggior parte dei casi è in carcere o si è tolto la vita. Crescono in case nuove, con zii o nonni, spesso senza un supporto psicologico adeguato. In alcuni casi vengono separati dai fratelli. In altri, devono anche cambiare scuola, città, nome. Non ci sono linee guida. Non ci sono psicologi pubblici specializzati. Tutto è lasciato alla buona volontà di chi si trova attorno.

La verità è che non siamo preparati. Abbiamo imparato a contare le donne uccise: una ogni tre giorni, ci dicono. Ma non abbiamo ancora imparato a prenderci cura di chi resta. Le istituzioni arrivano al funerale, forse a un convegno. Poi basta. Il dolore è privato. Il resto è burocrazia. Lo Stato non si fa carne, non diventa presenza. Non c’è una cabina di regia, non c’è un percorso integrato. Non c’è, soprattutto, ascolto.

E così il femminicidio si porta via più di una vita. Si porta via famiglie intere, costrette a ricominciare senza sapere come. Si porta via futuro, fiducia, pace. Ogni donna uccisa lascia un cratere. E noi, come collettività, continuiamo a camminarci accanto come se nulla fosse.

Ci servono leggi, sì. Ma ci serve anche empatia. Servono protocolli rapidi, supporto psicologico garantito e gratuito, accesso semplice ai fondi. Servono educatori, assistenti sociali, mediatori culturali. E servono giornalisti che continuino a raccontare non solo il momento della morte, ma quello che viene dopo. Quello che non fa rumore.

Perché nessuno, davvero nessuno, dovrebbe morire due volte. Anche se resta vivo.

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