Alessandro Vanoni (EY Italy): "Le nuove sfide della comunicazione corporate"

- di: Redazione
 
I nuovi orizzonti della comunicazione corporate in Italia, il suo ruolo crescente come acceleratore di trasformazione aziendale, le coordinate del cambiamento in atto, le aziende sempre più player centrali all’interno dei processi di comunicazione e di costruzione delle identità individuali e collettive, i team sempre più performanti e professionalizzati, la capacità di pensiero strategico come prima chiave di valutazione dei candidati ai team della comunicazione corporate e molto altro ancora. Intervista ad Alessandro Vanoni, Director of Brand & Communications EY Italy.

Alessandro Vanoni (EY Italy): "Le nuove sfide della comunicazione corporate"

EY ha di recente presentato i risultati dell’indagine “Quali nuovi orizzonti aprirà la comunicazione corporate?”, realizzata in collaborazione con SWG, che ha interrogato i responsabili della comunicazione di alcune delle più importanti aziende del Paese, con l’obiettivo di comprendere come brand, reputazione e comunicazione aziendale sono evoluti nel corso degli ultimi anni e quali sono le sfide per il futuro. Partiamo dalla parte finale. Quali sono le principali sfide per il futuro?
La sfida della trasformazione, in questo momento, è cruciale, proprio perché i tempi che viviamo sono molto veloci, imprevedibili e caratterizzati da una fiducia fragile e una reputazione gassosa. L’unica strada percorribile per affrontare queste trasformazioni è concentrarsi sulla qualità. Certo, dovremmo definire cosa significhi qualità: avere le idee chiare e sapersi posizionare in modo credibile e distintivo sul proprio mercato di riferimento è fondamentale. Ma non solo il “cosa”, anche il “come”: come usiamo i canali è determinante. Spesso per distribuire ovunque si cade nella tentazione di semplificare, abbassando il valore del contenuto. Trovare nuove forme adatte a diversi canali e stakeholder con aspettative diverse è invece un esercizio che richiede di comprendere le complessità, senza abbassare la qualità. Oggi sui canali bisogna lavorare in modo nativo, non adattivo.

Dall’indagine emerge che “le aziende rappresentano players sempre più centrali all’interno dei processi di comunicazione e di costruzione delle identità individuali e collettive”. Insomma, la capacità di un’impresa di leggere il mondo e di esprimere un parere su ciò che accade la rende credibile agli occhi dei propri stakeholders di riferimento. Un contesto che cambia di molto il ruolo, la qualità, le metodologie dei comunicatori. Ma questo ruolo quanto è riconosciuto dalle e nelle aziende?
Credo che il futuro del nostro ruolo stia nella capacità di integrare la prospettiva esterna con quella interna: la comunicazione è una delle poche funzioni che ha questa doppia anima. Legge l’esterno e legge la strategia aziendale dall’interno: se riesce a fonderle genera un significato molto pieno e rotondo. Non è un caso che dopo il Covid quasi tutti i nostri responsabili ritengano che la comunicazione abbia assunto un’importanza maggiore nel costruire e preservare la reputazione e ne riconoscano quindi il valore sempre più fondamentale. Fare un piano di comunicazione è diventato un processo di change management e culturale che ci ha reso partner sempre più credibili. Un esempio interessante, secondo me, è quello che abbiamo provato a fare in EY: non abbiamo cercato dei professionisti in grado solo di fare un’ottima execution - che è importantissima specialmente in un’azienda che va alla nostra velocità - ma delle persone che sapessero spiegare e accompagnare i nostri stakeholder nel processo che porta alla delivery, unendo le dimensioni di cui parlavamo prima: interna ed esterna.

Dai risultati viene fuori che la caratteristica ritenuta più importante dagli intervistati in relazione al candidato ideale è la capacità di pensiero strategico. Cos’è, dal suo punto di vista, il pensiero strategico?
Partiamo dal presupposto che oggi la solidità di una strategia non è più legata alla sua immutabilità. Quindi pensiero strategico per me significa saper proporre un orizzonte che sia credibile e avvicinabile sapendo adattare il proprio stile di navigazione nel corso del viaggio. In sintesi: unire piano interno ed esterno, costruire cornici che diano un senso collettivo e saper passare in tempi brevissimi da envisioning a execution, ovvero dall’idea alla messa in atto, misurando l’impatto in modo significativo per l’azienda, non solo per la comunicazione.

Su tutti questi temi della comunicazione sembra esserci un ‘prima’ e un ‘dopo’: pre-pandemia e post-pandemia. È effettivamente così? Nel medio periodo quali elementi di questa spinta continueranno ad agire e a rafforzarsi a quali invece perderanno forza?
La pandemia ha rappresentato per il 71% degli intervistati un’occasione per il brand, per il 26% né un’occasione né un indebolimento, e solo per il 3% la pandemia ha indebolito il brand. C’è, quindi, quasi l’unanimità sul fatto che la gestione di un momento di crisi sia stata positiva; sicuramente frutto anche di un’accelerazione digitale dal punto di vista dei canali proprietari quali sito, social, intranet, ma anche della capacità di costruire una customer journey digitale implementando strumenti di marketing automation, e lead generation. Insomma, tutto quello che in molti casi un tempo era un po’ lasciato alla buona volontà. Oggi siamo a un punto di equilibrio. Se guardiamo ai risultati della survey, ad esempio, i nostri responsabili risolvono l’eterna diatriba su ‘È più importante la stampa o il mondo dei social?’ sostanzialmente in parità, con una crescita dell’importanza dei canali proprietari. Questo punto di equilibrio non credo che durerà a lungo perché viviamo accelerazioni tecnologiche fortissime, basti pensare all’artificial intelligence che è sulla bocca di tutti in queste settimane, ma che in realtà è con noi da molto più tempo. Credo che nel medio termine la previsione sia di integrazione ed espansione, non di sostituzione: avremo più strumenti e canali su cui lavorare, non meno. Chiaramente con un equilibrio diverso a seconda degli obiettivi dell’azienda.

Dall’indagine viene fuori anche che la tendenza della comunicazione corporate va verso team più performanti piuttosto che verso budget più grandi. Non c’è una contraddizione?
Nella survey viene fuori che, nel corso della pandemia, non ci sono stati sostanziali aumenti di budget per quanto riguarda la comunicazione, che però allo stesso tempo è stata messa più in vetrina e più sotto pressione. I dati dicono anche che è cresciuta l’importanza e la professionalizzazione dei team; quindi, da una parte più importanza mentre dall’altra le risorse economiche sono le stesse. A mio avviso non è una contraddizione: i team comunicazione sono diventati più strutturati, più competenti e per questo più strategici. Questo significa anche maggiore focalizzazione delle attività ed efficienza, ovvero concentrare il budget sulla qualità.

Quale, in sintesi, l’identikit del comunicatore corporate, in linea con le trasformazioni avvenute con quelle che saranno necessarie di fronte alle nuove sfide? Quanto e cosa deve esserci di nuovo nella ‘cassetta degli attrezzi’ di questo comunicatore e cosa invece deve conservare dei ‘vecchi’ strumenti?
Devo dire che sono d’accordo con i dati della nostra ricerca; il pensiero strategico, la rete di relazioni e infine la velocità di esecuzione sono tre caratteristiche chiave; ne aggiungerei un’altra: la capacità di dare il giusto peso a quello che accade e gestire le emozioni proprie e degli stakeholder, specialmente in tempi veloci e rumorosi come quelli che viviamo.

In tutto questo contesto come s’inserisce, come mette a leva le sue eccellenti competenze EY, che esiste per costruire un mondo del lavoro migliore, per aiutare a creare valore nel lungo termine per i clienti, le persone e la società e costruire fiducia nei mercati finanziari?
Innanzitutto, EY è una people company che conta 8.500 professionisti in Italia. Se li moltiplichiamo per un nucleo familiare medio di 2/3 persone, capiamo subito come con una comunicazione interna possiamo potenzialmente raggiungere numeri all’altezza della tiratura di alcuni quotidiani nazionali! Questa è una grande responsabilità e per questo prestiamo molta attenzione alla qualità e credibilità delle nostre comunicazioni, a partire da quelle interne. E oltre ad essere una people company mi piace sottolineare che siamo una content company: non è un caso che nel nostro purpose si sottolinei come anche grazie alla qualità dei nostri studi e dei nostri insight aiutiamo a costruire fiducia nei mercati. Una dichiarazione di intenzioni che ci rende orgogliosi. La nostra non è una comunicazione estetica: lavoriamo ogni giorno per supportare il posizionamento strategico, il business e i professionisti di EY sul mercato.

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