L'agonia dell'ex Ilva paradigma degli errori dello Stato

- di: Redazione
 
Come la massaia annoiata o la donna delle pulizie che ha fretta di finire e andare via (non si adontino le donne, è solo per restare dentro la metafora che declina questo lavoro al femminile), lo Stato italiano per anni si è trovato davanti il problema dell'ex Ilva di Taranto e, piuttosto che prendere decisioni, anche se dolorose, si è limitato a mettere la polvere di questo sconcertante dossier sotto il tappeto. Solo che, metti oggi, metti domani, la polvere è diventata via via da un monticello e poi una collina, fino a diventare una montagna.

L'agonia dell'ex Ilva paradigma degli errori dello Stato

Così la società, che oggi si chiama Acciaierie d'Italia, si trova con le spalle al muro, alla disperata ricerca di oltre trecento milioni di euro, necessari per proseguire nella produttività e pagare la fornitura energetica. 
Ma, pur se costituiscono una bella somma, i trecento milioni di euro sarebbero il dito del bambino che blocca il buco nella diga. Perché di soldi ne occorrerebbero moltissimi di più - si parla di cinque lire miliardi, da spalmare su un piano pluriennale - per rilanciare una azienda che molti ormai considerano una palla al piede e anche un problema irrisolvibile. Non è così, non perché ci riteniamo custodi di ricette miracolose, ma per il semplice motivo che basta dare un'occhiata al mercato mondiale e a quanto sta accadendo sugli scenari internazionali per capire che, nel breve periodo, il fabbisogno globale di acciaio è destinato a crescere ulteriormente. 
Non che questo significhi che il prodotto italiano potrebbe conquistare nuovi mercati - occorre considerare fattori penalizzanti, se si guarda ad altri Paesi, come il costo del lavoro - , ma di sicuro riposizionarlo strategicamente laddove era un tempo. Ma qui di finanza e industria si parla anche troppo, poiché le decisioni sono politiche, ovvero capire sino a che punto lo Stato può impegnarsi e spendersi nel tentativo di rilanciare l'ex Ilva.
E mentre lo Stato cerca di trovare una soluzione che non sia un bagno di sangue, qualcosa che dia prospettive concrete, non semplici soltanto palliativi, il socio di maggioranza, Arcelor Mittal, aspetta sornione, sapendo che l'Italia non può abbandonare l'ex Ilva e che quindi qualcosa dovrà pur venire fuori. 
Da parte sua il presidente Franco Bernabè da tempo chiede che si intervenga, ai massimi livelli.
La cosa che maggiormente sconcerta è che, nei primi nove mesi di quest'anno, ad alimentare la cassa sono stati oltre un miliardo di euro, che però non si sono tradotti in investimenti, ma che sono redistribuiti agli agli azionisti. E non è una decisione spot, perché i tanti soldi che ci sono in cassa saranno utilizzati per l'acquisto dei propri titoli, mentre all'azienda - intesa come insieme di unità produttive - non andrà granché.  
E' comunque inquietante che questo dramma, per l'intero Paese e non solo per la sua industria, si stia consumando quasi in silenzio, come se ormai tutti si stiano rassegnando ad una fine ingloriosa per quello che, fino a pochi anni fa, era un fiore all'occhiello per l'Italia.

Il gruppo franco-indiano Arcelor-Mittal non profferisce parola, se non per dare di sé l'immagine di socio di minoranza, dopo che Invitalia ha portato oltre un miliardo di lire, alzando la sua partecipazione sostanzialmente al 60 per cento. 
E tanto per non sbagliare, Acciaierie d’Italia sembra essere uscita da progetti e ipotesi del gruppo. Tanto che di essa non si parla nel piano di investimenti che guardano al 2026. 
In questo panorama di crisi, imminente ma non ancora scoppiata se si guarda alla produzione, i vertici dell'azienda sembrano essersi defilati, nonostante il fatto che, nell'assumere la carica, hanno accettato oneri (portare l'ex Ilva fuori dalla crisi) e onori (i loro compensi sono certamente superiori agli operai degli alti forni...). 
I sindacati sembrano pessimisti, tanto che hanno chiesto al governo di sbattere fuori Arcelor e quindi che lo Stato divenga in tutto e per tutto socio di maggioranza. Intanto, però, la produzione rallenta, cosa che preoccupa anche le maestranze di Cornigliano, che dipendono da quella dello stabilimento di Taranto. 
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