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Europa sotto scacco: dazi e dollaro debole mettono l’Ue all’angolo

- di: Jole Rosati
 
Europa sotto scacco: dazi e dollaro debole mettono l’Ue all’angolo
Europa sotto scacco: dazi e dollaro debole mettono l’Ue all’angolo
Un accordo che Bruxelles presenta come stabilità rischia di trasformarsi in una trappola: il dollaro scivola, l’euro corre, l’export crolla. Critici e analisti evocano il fantasma di un nuovo “decennio perduto”.

Un accordo presentato come stabilità

Ursula von der Leyen non ha dubbi: l’intesa raggiunta con l’amministrazione Trump “è forte, seppur imperfetta”, e garantisce “prevedibilità rispetto all’escalation e allo scontro”, ha dichiarato von der Leyen. Il patto introduce un tetto tariffario al 15% su gran parte delle esportazioni comunitarie verso gli Stati Uniti, incluse auto e farmaci: un meccanismo che l’Unione, nelle parole della presidente, sarebbe la sola a poter vantare come protezione.

Ma dietro le dichiarazioni ufficiali si nasconde un quadro molto meno rassicurante. L’accordo arriva mentre l’economia europea mostra segnali di fragilità: crescita quasi ferma in Germania, instabilità politica in Francia e un sentiment in calo nell’eurozona.

Tra entusiasmi ufficiali e voci critiche

Non tutti condividono l’ottimismo di Bruxelles. Ferruccio De Bortoli ha definito l’intesa “un capolavoro di ipocrisia”, sostenendo che i presunti benefici si riducano allo scampato pericolo di minacce più gravi da parte della Casa Bianca. Una valutazione netta che fotografa la percezione di un accordo difensivo, non strategico.

Anche Mario Draghi, aprendo il Meeting di Rimini, ha parlato di un “anno che sarà ricordato per l’evaporare dell’illusione europea di avere potere geopolitico”. Per l’ex presidente della Bce, l’Europa si è dovuta “piegare ai dazi imposti dal suo più grande partner e alleato di lunga data”. Due giudizi che restituiscono l’immagine di un’Unione non protagonista ma comprimaria, costretta sulla difensiva proprio nel terreno del commercio internazionale.

Il peso del dollaro debole

Come se non bastasse, sul fronte valutario le cose peggiorano. Il dollaro ha perso oltre il 10% dall’inizio dell’anno, scivolando verso quota 1,20 per euro, con stime che ne indicano un possibile ulteriore indebolimento. Goldman Sachs attribuisce il trend alla fragilità del mercato del lavoro statunitense e a una crescita che non giustifica più un biglietto verde forte. Non è solo speculazione: è una perdita di fiducia degli investitori, interni ed esteri.

Per l’Europa, abituata a esportare con un dollaro forte, è un colpo durissimo: il vantaggio competitivo si riduce e le imprese si trovano davanti a un doppio costo, fatto di dazi e di cambio sfavorevole.

Export europeo in sofferenza

Le conseguenze sono già visibili. L’industria automobilistica tedesca, fortemente dipendente dal mercato statunitense, ha registrato calo a doppia cifra nelle vendite verso gli Usa. La stessa Volkswagen ha indicato la necessità di rivedere le previsioni dell’anno a causa di un contesto commerciale e valutario avverso.

L’Italia non è da meno: secondo stime diffuse dal mondo produttivo, l’aumento medio dei dazi dal 4,8% al 10,2%, sommato alla svalutazione del dollaro, rischia di erodere i margini delle aziende esportatrici fino al 20%. Il paradosso è evidente: mentre Bruxelles parla di stabilità, gli operatori economici registrano instabilità e contrazione.

L’Europa e la resa diplomatica

La domanda che molti osservatori si pongono è perché l’Ue non abbia reagito con strumenti che pure aveva a disposizione. Lo strumento anti-coercizione, pensato per contrastare le pressioni economiche di potenze terze, e il surplus Usa nei servizi avrebbero offerto margini per contromisure simmetriche. Eppure, von der Leyen non ha neppure accennato a eventuali ritorsioni. Per diversi analisti la ragione è semplice: la politica ha prevalso sull’economia, con l’obiettivo di mantenere un allineamento con Trump anche a costo di sacrificare interessi concreti.

La Bce divisa e il timore di recessione

La Banca centrale europea osserva con crescente preoccupazione. Nei verbali estivi alcuni membri hanno sottolineato i rischi legati ai dazi e al dollaro debole, invocando possibili misure di stimolo; altri ricordano che l’inflazione è ormai vicina al 2% e che lo spazio per nuovi tagli è limitato. Il dibattito si riaccenderà alla prossima riunione di settembre.

Olli Rehn ha già messo in guardia: “Non c’è spazio per compiacersi, serve cautela”, ha ammonito il banchiere centrale. Una posizione che sintetizza lo stato d’animo a Francoforte: prudenza, perché la combinazione di dazi + euro forte è una mina sotto i piedi dell’export.

L’ombra del “decennio perduto”

Il paragone con il Giappone degli anni Novanta ritorna in molte analisi. Dopo l’accordo del Plaza del 1985, che rivalutò lo yen, Tokyo visse un lungo periodo di stagnazione e deflazione, passato alla storia come “decennio perduto”. Gli economisti temono che l’Europa stia imboccando una strada simile: crescita bassa, export penalizzato, valuta troppo forte e una politica commerciale che guarda più alla diplomazia che all’economia reale.

Un equilibrio che non regge

In definitiva, l’accordo con Washington non appare né forte né imperfetto: sembra piuttosto fragile e squilibrato. Una scelta che l’Europa rischia di pagare con dazi più alti, dollaro debole ed export in difficoltà. Per dirla con De Bortoli, più che un trionfo diplomatico è “un capolavoro di ipocrisia”, ha scritto il giornalista. E, per dirla con Draghi, segna la fine di un’illusione: l’illusione che l’Ue potesse trattare “da pari a pari con la Casa Bianca”, ha ammonito l’ex presidente della Bce.

La storia insegna che cedere sulla politica commerciale può avere conseguenze durature. Oggi l’Europa è a un bivio: reagire o rischiare di trasformare gli anni a venire in un nuovo, interminabile “decennio perduto”. 

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