Comincia il semestre bianco e nella politica scatta la guerriglia

- di: Diego Minuti
 
L'inizio del cosiddetto semestre bianco, come forse non pochi temevano, si sta dimostrando come lo squillo di tromba che darà simbolicamente inizio ad un periodo di guerriglia politica e quindi parlamentare, che si tradurrà in un regolamento di conti che rischia di essere sanguinoso.
Il fatto di non potere sciogliere le camere nei sei mesi precedenti alla scadenza naturale del mandato del presidente della repubblica non significa affatto che c'è una tregua politica, che tutte le controversie restano in stallo sino a quando il Quirinale non avrà un nuovo inquilino.

Significa soltanto che le Camere restano lì dove sono e che un eventuale loro scioglimento sarà tecnicamente possibile solo quando arriverà il successore di Sergio Mattarella (sempre che, obtorto collo, il presidente non succeda a sé stesso, sia pure a tempo).
Ma da qui a dire che i partiti sentano l'obbligo morale di stare calmi e tranquilli ce ne corre. E i primi segnali non sono certo tranquillizzanti perché la situazione che si va determinando è tutto fuorché rasserenante. Non c'è un partito che in questo momento non registri fermenti interni, neanche i Fratelli d'Italia, che, da unica forza d'opposizione e in crescita di consensi, deve fare quel salto di qualità indispensabile, che si potrebbe tradurre nel necessario passaggio dalla fase caciarona o spettacolare (leggi: sprint nell'emiciclo dell'on.Mollicone per sfuggire ai commessi, manco fosse un'ala degli All Blacks braccato dagli avanti avversari) a quella realmente propositiva.

Magari passando anche per una rivisitazione della composizione della squadra dei frontmen cui il partito si affida per esprimere il proprio punto di vista e che, essendo sempre gli stessi, inducono ad un fastidioso senso di dejà vu o, peggio, di deja entendu. Giorgia Meloni ha fatto certo un gran lavoro, ma ora deve sapersi affrancare da vecchi schemi ed ingombranti fiancheggiatori, perché potrebbe essere imbarazzante, domani, se andasse al governo, spiegare a qualcuno che l'appoggio di un tempo non è più gradito.

Situazione nettamente differente in casa leghista dove il fiato sul collo dei Meloniani non rende facile la vita a Matteo Salvini che certo parla e si muove come se fosse il prossimo leader del centrodestra unito, ma deve anche confrontarsi con un partito che è molto meno granitico di quel che il suo capo lascia intendere. Perché, in un altro momento storico e al netto del fatto che ognuno ha diritto di dire quel che pensa, la partecipazione di alcuni pezzi importanti della Lega alle manifestazioni contro il green pass è sintomatica di come il partito non si ritrovi nel pensiero unico che Salvini vorrebbe imporre e che pare finalizzato a rinsaldare l'asse con Draghi, magari sperando che il premier di oggi diventi il presidente di domani, lasciandogli campo libero.

Sarà comunque difficile per Salvini dimenticare che accanto a chi insultava in piazza Draghi c'erano anche due suoi (presunti) luogotenenti, Armando Siri e Claudio Borghi, e che Simone Pillon (l'ariete leghista contro il ddl Zan) se n'è uscito con una frase (''Non permetteremo le sperimentazioni sui nostri bambini'') che è no vax che più non vax non potrebbe essere.
Tacendo del fatto che la maggioranza degli imprenditori che votano Lega oggi guardano a Giorgetti con maggiore interesse di quello riservato a Salvini. È forse per ricompattare il partito dietro di lui che Matteo Salvini è tornato a cavalcare un cavallo di battaglia sempreverde, l'immigrazione, minacciando ma nemmeno tanto, un ripensamento nei confronti del governo se non si fermerà l'invasione. Un anatema che resta difficile da prendere sul serio dal momento che il governo non ha modificato di una virgola l'atteggiamento che aveva annunciato all'atto della sua nascita, resa possibile dal voto leghista.

Nebuloso resta anche il futuro di Forza Italia che da partito personale è diventato una aggregazione di conventicole in cui ciascuno si sente dominus e non più un convinto sostenitore. Sino a quando non sarà risolto l'enigma sul futuro di Forza Italia (alleato alla Lega o partitino satellite?) e sino a quando Berlusconi farà mancare non il suo pensiero, ma la sua presenza fisica, tutto resta caotico. Un partito dove, per intuire il pensiero del demiurgo, bisogna affidarsi all'interpretazione autentica delle parole della fidanzata.
C'è poi il magma per eccellenza, quello grillino, dove un capo - che non è ancora tale perché manca dell'investitura della base - è strattonato dalle varie componenti del movimento che lui sperava avere messo in riga in virtù di un prestigio che ora mostra delle crepe.

La vicenda della riforma del processo penale è chiarificatrice di come i Cinque Stelle siano combattuti tra le loro varie anime: quella barricadera, che anela un ritorno al passato, quando Crismi sfotteva Bersani e la password della politica era ''vaffa...''; quella governista, che guarda con terrore all'ipotesi di maggioranze che non comprendano più il movimenti e, quindi, li privi del potere che gestiscono allo stesso modo di coloro che per loro incarnavano la ''casta''; quella composta dai ''mediomen'' e ''mediowomen'', che stanno lì ad aspettare, sperando di potere restare in carica il più a lungo possibile, per poi tornare al precedente lavoro (?????). Ah, poi ci sarebbero quelli che sono usciti dal movimento e non perdono occasione - magari dall'altro lato del mondo - per occuparsene come se ne facessero ancora parte.

Poi c'è il Pd che Enrico Letta cerca di plasmare a sua somiglianza, dimenticando che avere un prestigio personale non necessariamente dà il carisma o crea seguito. La stessa decisione di candidarsi a Siena, nelle suppletive per il seggio che fu dell'ex ministro Padoan, per uno che cerca di dare del Pd una visione fortemente sociale, con qualche spruzzata di ieratico distacco dalla politica di strada, non è stata una mossa condivisa da tutti, al di là del sostengo garantito.
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