La partita tra la Lega e Draghi è ancora aperta

- di: Diego Minuti
 
Il gioco è abbastanza chiaro: la Lega - mettendo da parte le sue radici, almeno quelle che erano le connotazioni dategli da Umberto Bossi - cammina ormai lungo uno stretto sentiero politico che, da un lato, vede la sua (a parole totale e convinta) partecipazione alla coalizione di governo, e, dall'altro, la tentazione di proseguire nel nemmeno troppo nascosto flirt con chi - la destra estrema - sta cavalcando, con alterne fortune, l'ondata di proteste per le politica anti-pandemia.
Ma sino a quando sarà possibile questa condotta che sembra schizofrenica, ma solo agli occhi di non conosce gli equilibrismi della politica?

Matteo Salvini si trova stretto tra due posizioni che sono apparentemente poco conciliabili: la piena adesione alla linea del governo, ma solo per il fatto di farne parte, e la voglia di spaccare tutto, di farsi prendere la mano da quei compagni di partito che colgono ogni occasione per dichiarare il loro dissenso nei confronti dell'operato di Mario Draghi.
Quanto accaduto in commissione Affari sociali della Camera è chiaro, che più chiaro non potrebbe essere, perché in quella sede la Lega ha sposato gli emendamenti delle opposizioni, affidando il compito di dirigere le operazioni a Claudio Borghi che di quell'organismo parlamentare nemmeno fa parte e che per questo avrebbe dovuto forse comportarsi come componente della maggioranza e non invece come Masaniello degli anti green pass. Già votare in disaccordo con il governo di cui si fa parte è grave, ma se lo si fa guidando il pronunciamento peraltro da sostituto è cosa grave, almeno politicamente (lasciamo ad altri considerazioni etiche). E resta ancora un mistero se Borghi abbia agito senza l'avallo di Salvini (fatto grave) o se si sia mosso dietro esplicito mandato del segretario (fatto gravissimo).

Davanti a questo quadro, in cui Salvini si dimostra di lotta e di governo (proprio in quest'ordine), la difficoltà di Mario Draghi è solo quella di trovare le parole giuste per mettere in chiaro che lui va avanti perché lo impone il Pnrr e che le responsabilità dei singoli partiti della coalizione devono essere chiarite in sede politica e non di esecutivo. Quindi il premier ha rigettato la palla nell'altro campo, dicendo a Salvini - almeno questo sembra essere stato il senso - che il governo va per la sua strada e che le sue manovre non ne intralceranno il cammino.

Salvini, quindi, torna a sedersi con il cerino in mano, sapendo che una parte consistente (ed anche importante) del partito comincia a non seguirlo più nelle sue strategie. E non si tratta di peones, di deputati che siedono in alto nell'emiciclo e la cui voce non arriva nemmeno, ma pesi massimi come i presidenti di Regioni importanti del ''suo'' nord (Fontana, Zaia e Fedriga) che sembrano non sopportare la linea decisa dal segretario in una materia delicata come quella delle campagne vaccinali e dei provvedimenti che esse generano.

Insomma la Lega sembra spaccata tra quelli che hanno responsabilità dirette nella salute dei loro amministrati (i presidenti di Regione) ed intendono farsene carico e quelli che teorizzano e aizzano, partendo da posizioni politiche che mal si conciliano con un premier europeista come Draghi. Il succo della faccenda sta proprio qui. Fare parte della coalizione, se consente di amministrare una fetta del potere, ha anche degli obblighi ai quali Borghi ed altri non intendono sottostare sulla base di convinzioni (politiche, economiche, ideologiche) che sono proprie di una forza di opposizione.
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