Perché questa Italia è oggi politicamente ingovernabile
- di: Diego Minuti
Quando, nel plauso generale (ad eccezione di coloro che gli hanno dovuto cedere il passo e di chi, dopo avere assaporato per tre anni il potere reale, sia pure per interposta persona, ha preso atto d'essere ormai ridotto al rango di polemista e non più di ghost writer di palazzo Chigi), Mario Draghi è stato chiamato a prendere le redini del Paese, l'Italia è stata, per un lasso brevissimo di tempo, una nazione normale, dove il bene superiore - che è quello comune - valeva pure una piccola sconfitta politica.
Ma quel tempo è ormai passato perché tutte le contraddizioni di una maggioranza in cui la parola coesione non è mai esistita, se non all'atto della formazione del governo, sono esplose quasi immediatamente e non hanno avuto come effetto l'implosione del governo solo per il prestigio personale del premier.
Purtroppo, però, le tensioni stanno emergendo quotidianamente e, a dare credibilità a tutto quel che si legge, non passa giorno senza che Draghi debba scansare le trappole di cui è scientemente disseminato il suo cammino.
L'elenco delle lacerazioni in seno alla coalizione è già lunghissimo quanto sconcertante perché si tratta di ''guerre a bassa intensità'' che però, sommandosi, rendono la vita del governo a serio rischio. Tutto è buono per segnare un distinguo dalla linea del governo, dall'ipotesi di riforma della Giustizia ai nuovi vertici della Rai e, poi, andando indietro nel tempo, al ddl Zan, al referendum radical-leghista, al voto ai diciottenni, al reddito di cittadinanza, alla digitalizzazione, e ci fermiamo qui.
Una conflittualità che, se non fa esplodere il governo, quanto meno lo logora. Come ha dimostrato la vicenda della riforma Cartabia sulla quale - dice qualche quotidiano - Draghi ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere la delegazione dei ministri 5S a fermare la rivolta. Così mentre da qualche parte si plaude - ritenendola di ragionevolezza - alla scelta dei ministri dei Cinque Stelle di votare la riforma della giustizia, i grandi suggeritori in casa grillina (oggi contiana) hanno portato la tensione interna al movimento ad un passo dalla scissione. Talvolta facendo ricorso al solito armamentario di insulti che ridà vigore alle vecchie e mai scordate abitudini - offendete, offendete, qualcosa resterà -.
Scissione, comunque, rientrata perché, come diciamo sin dall'esplodere del dissidio tra Grillo e Conte, nessuno dei due era intenzionato a fare un reale passo indietro per spianare la strada all'altro. Ecco allora che l'Elevato e il Giurista hanno deciso di siglare un accordo che, per quel che appare chiaro, ha un solo vincitore, l'ex premier, che sembra portarsi dietro la buona stella di arrivare ai vertici di qualcosa senza alcuna investitura popolare.
Resta comunque sempre il dubbio su quale sarà, prima di tornare a fare sentire la sua voce, la lunghezza del periodo in cui Grillo accetterà questa condizione - quella di garante - orba di una incidenza realmente politica sul movimento. In ogni caso i 5 Stelle stanno tenendo in ostaggio il futuro del governo - nella sua composizione attuale - perché ora bisognerà vedere quale saranno le prossime mosse di Conte, a partire dal voto sulla riforma Cartabia, su cui l'ala più integralista del movimento (quella di ispirazione giustizialista, il cui ruolo di ideologo è conteso da più soggetti, dentro ma soprattutto fuori dal parlamento) vuole scatenare un Vietnam di imperscrutabile esito.
La cosa che emerge in questa contingenza è che i partiti non sembrano accorgersi che le loro beghe interne rischiano di fare saltare il banco e, con esso, quanto di buono è stato fatto fino ad ora dal governo Draghi, che può piacere o meno, ma che sino ad oggi ha raggiunto parte degli obiettivi che si era posti. Peraltro, l'accavallarsi di date molto importanti politicamente (le scadenze del Pnrr; l'inizio del semestre bianco; le amministrative d'autunno; l'elezione del presidente della repubblica) sembra non interessare a chi guarda esclusivamente agli interessi della propria cordata. Lo stesso Partito democratico che, dal marasma grillino, poteva trarre dei benefici politici sembra perso dietro grandi ragionamenti, che però pare perdono di vista la realtà quotidiana del Paese.
Forse in questo momento non tanto il Pd, quanto l'Italia avevano bisogno di un grande partito riformista che incidesse sulla quotidianità del Paese, con una visione che sapesse anticipare i tempi. Invece Enrico Letta sembra essere preso - spesso a posteriori - dalle grandi tematiche di principio o ideologiche, non guardando ai piccoli problemi della gente qualunque.