Non confondere un caffè al banco con la fine della crisi

- di: Diego Minuti
 
Ammettiamolo: vedere che il Paese sta tornando alla normalità è bello. La gente riprende a riappropriarsi delle città e comincia a capire che le privazioni che abbiamo dovuto affrontare in questi mesi erano necessarie per fronteggiare, prima, e avviare la ripresa, dopo, per una crisi che ha minato, alla radice, alcune delle nostre più forti convinzioni.
Ma questo è stato ed ora dobbiamo, tutti, come italiani, fare parte dello sforzo comune per lasciarci alle spalle le conseguenze di una pandemia che, trovandoci impreparati, ha colpito duramente il Paese, come società, come economia, come sanità, come rapporti con gli altri.

Però ora la sensazione di ''liberi tutti'' che si sta manifestando - come confermano i bar che tornano alla normalità - sembra essere sovradimensionata perché, ammettiamolo, ancora nulla è stato fatto o, con un'altra versione, il cammino che abbiamo davanti è ancora lungo ancorché irto di difficoltà.
Prendere un caffè al banco restituisce alla tranquilla serenità dei riti quotidiani che noi italiani, quando ci sono stati vietati, abbiamo avvertito come una offesa personale, attentando alla routinaria normalità delle giornate.

Ora, grazie alla migliorata situazione sanitaria, possiamo tornare a parlare con chi sta accanto a noi, affrontando il sacro rito del caffè, del lento mescolare il nero e bollente liquido affinché lo zucchero si sciolga. Però il pericolo che è in agguato è che la gente non colga la gravità della situazione generale che certo non può dirsi superata per un caffè al banco.
La crisi economica resta grave e la pesantezza della situazione, in termini di indicatori, è evidente, troppo perché si pensi di esserne fuori solo perché ci è data la possibilità di tornare ad una apparente normalità. La realtà è che tutti stiamo con fiato sospeso in attesa di capire se e quando i fondi che arriveranno dall'Europa ci porteranno per mano fuori dalla crisi. Una cosa che tutti si auspicano, ma che ancora oggi è ammantata di incertezze sui tempi e sulle modalità di utilizzo dei miliardi che arriveranno da Bruxelles.

Le prospettive ci sono - lo ha confermato anche l'ultimo rapporto elaborato dall'Ocse -, ma su di esse gravano alcune contraddizioni che solo apparentemente sono incomprensibili. Il nostro PIL migliorerà, ma questo non significa che il tessuto che compone la nostra forza lavoro non pagherà la conseguenze della crisi. Che, una volta sconfitta, ''costringerà'' tutti a tornare al vecchio percorso di lavoro, cosa affatto facile perché oltre un anno di lacerazioni sociali, di paure, di fallimenti (commerciali ma anche come speranze) non passerà nel dimenticatoio facilmente.
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