Dall’IA ai conti pubblici, le forze che nessun investitore potrà ignorare.
Nel 2025 si è capito con chiarezza che una manciata di forze gigantesche sta riscrivendo le regole dell’economia globale:
l’ondata di investimenti in intelligenza artificiale, la Cina intrappolata tra eccesso di capacità e domanda debole,
la guerra commerciale che non si spegne, le banche centrali in manovra e, sullo sfondo,
conti pubblici sempre più pesanti.
Capital Economics, una delle case di ricerca più ascoltate dai grandi investitori, ha sintetizzato queste dinamiche in
cinque macro trend destinati a dominare il 2026. Attorno a questi assi si stanno già muovendo mercati,
governi e banche centrali. E ignorarli significherà arrivare in ritardo.
1. L’intelligenza artificiale spinge la crescita (e gonfia la Borsa USA)
L’IA non è più una promessa vaga: nel 2025 si è vista nei numeri. Capital Economics stima che
l’adozione dell’IA e il boom di investimenti digitali abbiano aggiunto circa 0,5 punti percentuali
alla crescita del Pil statunitense nella prima metà del 2025, principalmente attraverso l’impennata di spesa per
infrastrutture informatiche e data center legati ai modelli di IA generativa.
Questa spinta non si esaurisce: per il 2026 la stessa società si aspetta una crescita USA intorno al 2,5%,
superiore alle previsioni medie di mercato, proprio grazie all’IA e alla combinazione di
fiscale espansivo e condizioni finanziarie meno rigide. Altre case, da Goldman Sachs a grandi gestori globali,
indicano un quadro simile: gli Stati Uniti rimangono il motore della crescita mondiale, trainati dalla tecnologia e dalla spesa delle famiglie.
L’altra faccia della medaglia è sui listini. Gli indici americani sono stati sospinti da un nucleo ristretto di big tecnologiche
e dai titoli legati all’ecosistema IA (chip, cloud, software, data center). Capital Economics ritiene che le valutazioni siano
elevate ma non ancora nel territorio di “bolla anni ’90”. Alcune previsioni parlano apertamente di
S&P 500 in area 8.000–8.100 a fine 2026, in linea con gli obiettivi più aggressivi di alcuni strategist di Wall Street,
se la crescita resterà solida e gli utili continueranno a salire.
L’Europa, invece, rischia di restare un passo indietro. L’adozione dell’IA è più lenta, la struttura industriale meno flessibile,
e il continente assorbe con fatica lo shock delle tariffe USA. Capital Economics prevede per il 2026 una
crescita attorno all’1,0% nell’eurozona e all’1,2% nel Regno Unito, sotto le medie di consenso,
segnalando chiaramente un’economia a due velocità: America iper-dinamica, Europa in affanno.
Per gli investitori il messaggio è netto: il tema IA resta dominante sui mercati azionari nel 2026,
con gli Stati Uniti al centro. Ma più i multipli si allungano, più aumenta la sensibilità a delusioni sugli utili,
a eventuali strette regolamentari e alla normalizzazione della crescita degli investimenti tecnologici.
2. La Cina resta intrappolata tra bassa crescita e spinte deflazionistiche
Mentre gli Stati Uniti corrono sull’IA, la Cina entra nel 2026 con problemi strutturali irrisolti.
La capacità manifatturiera continua ad aumentare, ma la domanda interna è debole, schiacciata da una lunga crisi immobiliare,
redditi che crescono poco e fiducia dei consumatori fragile.
Nonostante obiettivi ufficiali di crescita intorno al 5%, molti centri di analisi indipendenti – tra cui Capital Economics –
ritengono che, al netto di stimoli e contabilità creativa, l’economia cinese sia diretta verso un sentiero di
crescita reale intorno al 3% nel 2026. Il risultato è una combinazione scomoda:
eccesso di offerta, investimenti pubblici ancora alti e inflazione molto bassa, se non negativa in diversi segmenti.
La prova è nel commercio estero: tra fine 2025 e inizio 2026 la Cina ha registrato un
surplus commerciale superiore ai 1.000 miliardi di dollari su base annua,
con esportazioni robuste verso Europa e Sud-est asiatico, mentre i flussi verso gli Stati Uniti sono crollati
sotto il peso delle tariffe. Questo surplus record è il sintomo di un modello che continua a spingere sulla produzione,
scaricando all’estero una domanda interna insufficiente.
Pechino ha promesso per il 2026 una politica più espansiva, con maggiore spesa pubblica e credito più abbondante,
ma il quadro di fondo non cambia: il Paese ha un settore immobiliare ancora debole, una popolazione che invecchia,
un mercato del lavoro giovanile sotto pressione e un sistema bancario legato a doppio filo agli enti locali molto indebitati.
Il risultato è una pressione deflazionistica strutturale, che non riguarda solo la Cina.
L’eccesso di capacità in settori come auto elettriche, rinnovabili, batterie e prodotti tecnologici continua a spingere
sul ribasso dei prezzi globali, accendendo tensioni con partner come Europa e Stati Uniti.
Nel 2026 la discussione su dazi “anti-sovraccapacità” e limiti agli investimenti cinesi in settori strategici
sarà ancora più centrale.
3. La guerra commerciale non è finita: la tregua Xi–Trump è solo una pausa
Il 2025 ha segnato una nuova fase nei rapporti USA–Cina: la tregua Xi–Trump,
siglata tra autunno e fine anno, ha congelato per dodici mesi l’escalation tariffaria e alleggerito alcune misure
più punitive. Ma si tratta, per ammissione degli stessi analisti, di una pausa tattica, non di una pace commerciale.
L’accordo prevede una finestra di un solo anno prima di essere rinegoziato. In pratica,
un punto di infiammabilità già segnato sul calendario a fine 2026.
Le tariffe esistenti restano in larga parte in piedi, mentre Washington mantiene il controllo su
esportazioni di tecnologie sensibili (chip avanzati, infrastrutture di rete, componenti critici)
e su un elenco di entità cinesi considerate a rischio.
Nel frattempo, la struttura degli scambi globali continua a cambiare. Le catene del valore per beni “sensibili”
– semiconduttori, componenti per IA, batterie, rinnovabili – si stanno spostando lontano dalla Cina
verso Messico, Vietnam, India e altri Paesi percepiti come più “sicuri” dal punto di vista geopolitico.
Gli economisti parlano di “friendshoring” e “nearshoring”: più che ridurre la globalizzazione, la si ridisegna
attorno a blocchi politici.
Gli Stati Uniti hanno inoltre bisogno dei ricavi daziari:
le entrate legate alle tariffe sono diventate una componente non trascurabile del bilancio federale.
Questo rende politicamente difficile un ritorno a dazi prossimi allo zero.
Allo stesso tempo, l’Europa discute di dazi difensivi su auto elettriche, acciaio verde e altre produzioni
dove i produttori cinesi stanno conquistando quote di mercato con prezzi molto aggressivi.
Nel 2026, quindi, il commercio mondiale sarà condizionato da un intreccio di tariffe, controlli agli investimenti
e blocchi tecnologici. Per le imprese multinazionali significa catene di fornitura più costose e complesse.
Per gli investitori, un rischio permanente di shock geopolitici che colpiscano singoli settori o Paesi.
4. Le banche centrali allentano, ma niente “regalo” di tassi zero
Nel 2024–2025 il mondo ha assistito alla fine del ciclo di rialzi più aggressivo degli ultimi decenni.
Nel 2026 la questione non sarà più se le banche centrali taglieranno i tassi, ma quanto e per quanto poco.
Negli Stati Uniti la Federal Reserve è orientata a portare il tasso sui federal funds verso un intervallo
intorno al 3,25–3,50%, con un taglio in dicembre e pochi ritocchi ulteriori nel 2026.
Capital Economics vede un percorso di allentamento più lento di quanto i mercati scontano,
perché l’economia USA resta resiliente, la disoccupazione bassa e l’inflazione ancora vicina, se non sopra, al 3%.
In altre parole: niente ritorno ai tassi zero, e nessun “taglio shock” come vorrebbe la Casa Bianca.
In Europa la situazione è diversa. La BCE ha già abbassato i tassi in modo significativo tra il 2024 e il 2025,
e ora li mantiene attorno al 2%. I sondaggi tra economisti e analisti indicano un’istituzione pronta
a restare ferma per gran parte del 2026, salvo un peggioramento evidente del quadro macro.
La crescita dell’area euro è modesta ma positiva, l’inflazione è tornata vicino al target:
la banca centrale può permettersi di aspettare.
Il Regno Unito appare più vulnerabile: crescita lenta, inflazione ancora “appiccicosa” e
debito pubblico elevato costringono la Bank of England a un equilibrio delicato.
Diversi scenari per il 2026 prevedono qualche ulteriore taglio dei tassi per sostenere l’economia,
ma nessuna corsa a riportarli su livelli ultra-espansivi.
Il Giappone resta il caso a parte. Dopo aver abbandonato i tassi negativi, la Bank of Japan è attesa portare
gradualmente il costo del denaro verso l’area dell’1,25% nel 2026,
normalizzando una politica monetaria eccezionalmente accomodante durata oltre un decennio.
Se questo scenario si concretizzerà, lo yen potrebbe rafforzarsi contro il dollaro,
ribaltando parzialmente le dinamiche viste negli ultimi anni.
Risultato: il 2026 sarà un anno di divergenza monetaria controllata.
Alcune banche centrali avranno quasi concluso il ciclo di tagli, altre staranno iniziando a normalizzare verso l’alto.
Per i mercati obbligazionari, questo significa curve dei rendimenti mosse più dalle
aspettative sui tagli futuri e dal rischio fiscale che non da nuovi maxi-rialzi.
5. I rischi fiscali continuano a perseguitare mercati e governi
Se l’IA rappresenta la grande promessa del 2026, i conti pubblici sono la grande minaccia silenziosa.
Dopo anni di pandemia, crisi energetica, guerra in Ucraina e risposte fiscali massicce,
il livello medio di debito nei Paesi avanzati resta su massimi storici.
Le stime per il 2026 indicano un debito sopra il 110% del Pil nei principali Stati avanzati,
con deficit ancora ampi e lontani da percorsi di rientro credibili.
Francia, Regno Unito, Italia e Stati Uniti emergono come epicentri di tensione potenziale.
Nel 2025 i mercati hanno già dato un assaggio di cosa può succedere:
brevi ma violenti rialzi dei rendimenti, vendite improvvise sui titoli di Stato, aumento dello spread sui Paesi percepiti come più fragili.
Capital Economics avverte che episodi simili sono destinati a ripetersi nel 2026,
man mano che investitori e agenzie di rating metteranno alla prova la pazienza verso governi poco credibili sul fronte del consolidamento.
Il Fondo monetario internazionale, nel Fiscal Monitor di ottobre 2025, sottolinea come molti Paesi del G20
– tra cui Canada, Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone –
abbiano un debito superiore o in rapido avvicinamento al 100% del Pil, con spesa per interessi in aumento.
L’Organismo britannico di vigilanza sui conti (OBR) ricorda per esempio che il Regno Unito
ha un rapporto debito/Pil vicino al 94% e uno dei costi di finanziamento più alti tra le economie avanzate.
La buona notizia per i governi è che la combinazione di tagli dei tassi
e una lieve forma di repressione finanziaria (ossia tassi reali moderatamente negativi,
con inflazione leggermente sopra il costo del debito) dovrebbe evitare un crollo generalizzato dei mercati obbligazionari.
La cattiva notizia è che questo non impedirà scossoni improvvisi sui singoli Paesi,
ogni volta che la politica darà segnali di instabilità o mancanza di disciplina fiscale.
Il 2026 sarà quindi un anno in cui gli investitori dovranno valutare con più attenzione non solo
il livello assoluto del debito, ma anche la credibilità delle strategie di rientro,
la qualità della crescita e la coesione politica dei governi.
In assenza di risposte convincenti, i mercati non esiteranno a “mordere”.
Cosa significa tutto questo per il 2026
Sommando questi cinque macro trend, l’immagine è chiara.
Il 2026 non sarà un anno di tranquillità, ma di riallineamento dei rapporti di forza nell’economia mondiale:
• Stati Uniti: restano il centro di gravità dei mercati grazie all’IA e a una crescita ancora robusta,
ma espongono gli investitori a valutazioni alte e a una forte dipendenza da pochi settori e titoli.
• Cina: resta il grande produttore del mondo, ma incatenata da problemi interni che generano deflazione
e un surplus commerciale record, con conseguente frizione permanente con l’Occidente.
• Europa e Regno Unito: crescono poco, dipendono da un contesto commerciale sempre più politicizzato
e devono gestire sistemi di welfare costosi con finanze pubbliche tese.
• Politica monetaria: entra in una fase di normalizzazione imperfetta,
con tassi più bassi ma lontani dallo zero e margini di manovra più limitati rispetto al passato.
• Politica fiscale: resta il vero rischio di coda, capace di innescare in pochi giorni crisi di fiducia
sui singoli Paesi, anche senza un nuovo shock finanziario globale.
Per governi e banche centrali il compito è evidente: governare questi trend,
invece di farsi trascinare. Per chi investe, il 2026 sarà l’anno in cui
la macroeconomia tornerà a contare davvero: non basterà più guardare gli utili trimestrali,
ma capire come i cinque grandi fili che muovono il mondo – IA, Cina, commercio, tassi e fisco –
si intrecciano dietro ogni grafico.