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Cina, frenata d’autunno: produzione giù, investimenti in rosso

- di: Vittorio Massi
 
Cina, frenata d’autunno: produzione giù, investimenti in rosso
Cina, frenata d’autunno: produzione giù, investimenti in rosso
(Foto: industria automobilistica cinese).
 
Produzione industriale in rallentamento, consumi che tengono ma perdono slancio, investimenti fissi in territorio negativo e una crisi immobiliare che continua a mordere: l’autunno dell’economia cinese si tinge di toni freddi. I dati ufficiali di ottobre raccontano un quadro fatto di luci sempre più fioche e ombre che si allungano, mentre Pechino prova a mantenere l’obiettivo di crescita annua “intorno al 5%”.

Nel mezzo di tensioni commerciali, debito elevato e prezzi delle case in calo, la seconda economia del mondo manda un segnale chiaro: la ripresa post-pandemica si sta sgonfiando e ricucire lo strappo tra obiettivi politici e realtà economica sarà sempre più complicato.

I numeri di ottobre: industria giù, consumi in rallentamento

La produzione industriale cinese è cresciuta ad ottobre del 4,9% su base annua, in frenata rispetto al 6,5% registrato a settembre e al di sotto delle attese di mercato, che puntavano a un incremento intorno al 5,5%. Si tratta del ritmo più debole da oltre un anno e di un segnale eloquente di come la domanda, interna ed estera, stia perdendo forza.

Le vendite al dettaglio, termometro dei consumi delle famiglie, sono salite del 2,9% annuo, poco meno del 3% di settembre ma leggermente sopra il consenso degli analisti. È però il quinto rallentamento mensile consecutivo, a conferma di una dinamica che procede a passi sempre più corti nonostante gli sforzi di Pechino per spingere la spesa delle famiglie.

A colpire, però, è soprattutto il capitolo degli investimenti in asset fissi, una delle colonne del modello di crescita cinese. Nei primi dieci mesi del 2025 il saldo è scivolato a -1,7% su base annua, peggiorando rispetto al -0,5% dei primi nove mesi. Significa che imprese e governi locali, anziché accelerare su nuovi progetti, stanno tirando il freno, segnalando sfiducia sulle prospettive di medio periodo.

La zavorra del mattone: investimenti immobiliari in caduta

Dietro la debolezza degli investimenti fissi c’è soprattutto la crisi del settore immobiliare, che continua a pesare come un macigno sulla congiuntura. Nei primi mesi dell’anno gli investimenti immobiliari hanno segnato un calo di oltre il 14% rispetto all’anno precedente, un’emorragia che si somma a diversi anni di correzione del comparto edilizio.

Il mercato delle case, dopo il boom di un decennio, è entrato in una fase di lunga discesa. I prezzi delle nuove abitazioni nelle principali città sono scesi al ritmo più rapido degli ultimi mesi, con la grande maggioranza dei centri urbani in territorio negativo. Per famiglie e investitori, che per anni hanno considerato il mattone come il principale “salvadanaio” di risparmio, è un colpo pesante alla ricchezza percepita.

Il mattone, in Cina, non è un settore come gli altri: alimenta l’occupazione, sostiene la domanda di acciaio, cemento e materiali da costruzione, gonfia le entrate dei governi locali attraverso la vendita dei terreni. Quando questo meccanismo si inceppa, l’onda lunga arriva a tutta l’economia.

Non a caso il Fondo monetario internazionale ha sottolineato che il settore immobiliare resta il principale fattore di fragilità. In un recente rapporto ha scritto che “le prospettive per la Cina restano preoccupanti finché il mattone resterà su fondamenta instabili”, evidenziando il rischio di una dinamica di tipo deflazionistico, con prezzi in discesa e debito elevato che si alimentano a vicenda.

Consumi che reggono, ma non decollano

Il governo cinese da tempo insiste sulla necessità di riequilibrare il modello di crescita spostando il baricentro dagli investimenti alle spese delle famiglie. I numeri di ottobre mostrano tuttavia che la strada è ancora lunga.

Il +2,9% delle vendite al dettaglio è un dato positivo se confrontato con gli anni più bui della pandemia, ma appare modesto per un’economia che ambisce a crescere intorno al 5% l’anno. Pesano l’incertezza sul lavoro, il clima di prudenza delle famiglie dopo anni di restrizioni e il calo della ricchezza immobiliare, che rende i consumatori più guardinghi.

Le campagne di incentivi al consumo, i sussidi per l’acquisto di beni durevoli e le promozioni legate agli eventi di shopping online hanno aiutato a sostenere la domanda, ma non sono bastati a cambiare il quadro. Come osserva un economista di una grande banca asiatica, “la Cina sta cercando di costruire una società più orientata ai consumi, ma i cittadini restano cauti e preferiscono risparmiare”.

Occupazione stabile, ma il quadro resta fragile

Una delle poche note confortanti dei dati di ottobre arriva dal mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione urbana è sceso al 5,1%, in lieve miglioramento rispetto al 5,2% di settembre. Le autorità parlano di un mercato “complessivamente stabile”, sottolineando la capacità delle imprese di mantenere i livelli occupazionali nonostante il rallentamento.

Dietro la cifra ufficiale si nascondono però diverse sfumature. La disoccupazione tra i giovani è rimasta elevata negli ultimi anni, tanto da spingere le autorità a rivedere la metodologia di calcolo e, in alcuni momenti, a sospendere la pubblicazione del dato. E molte aziende manifatturiere stanno riducendo gli straordinari o le ore lavorate, segnale di una domanda debole che si riflette su salari e prospettive di reddito.

In questo contesto, il rischio è che la tenuta apparente del mercato del lavoro sia ottenuta al prezzo di una produttività in calo e di redditi stagnanti, elementi che non aiutano la ripartenza dei consumi.

Tra dazi, debiti e deflazione: perché la Cina frena

La frenata dell’economia cinese non è solo il risultato di un dato mensile andato male. Dietro il -1,7% degli investimenti fissi e il rallentamento di industria e consumi c’è un insieme di fattori strutturali che stanno ridisegnando il profilo della crescita.

Da un lato c’è il peso del debito, accumulato in anni di espansione a colpi di cemento, grandi opere e credito facile. Molte amministrazioni locali sono sotto pressione, con bilanci appesantiti da progetti poco redditizi e dal crollo delle entrate legate alla vendita dei terreni.

Dall’altro lato ci sono le tensioni commerciali, con nuovi dazi e barriere all’export che colpiscono in particolare i settori ad alta intensità tecnologica e l’auto elettrica. Per un’economia che ha fatto delle esportazioni uno dei motori principali, il rischio è di ritrovarsi con capacità produttiva in eccesso e margini in compressione.

Su tutto si innesta l’ombra della deflazione: prezzi alla produzione in calo da mesi, margini industriali sotto pressione, aspettative di futuro più incerte. Un mix che rende complicato spingere le imprese a investire e le famiglie a spendere.

Come ha sintetizzato un analista di un centro studi europeo, “la Cina sta passando dall’era della crescita facile a quella della crescita difficile, in cui ogni punto di Pil va guadagnato con riforme e fiducia, non più solo con il credito”.

La risposta di Pechino: stimolo mirato e nuove priorità

Di fronte al rallentamento, Pechino ha già messo in campo una serie di misure: tagli selettivi dei tassi di interesse, emissione di obbligazioni speciali per finanziare infrastrutture “strategiche”, sostegno mirato alle imprese più esposte alla crisi immobiliare e incentivi ai consumi verdi e tecnologici.

La leadership cinese insiste sulla necessità di puntare su alta tecnologia, manifattura avanzata e transizione energetica come nuovi pilastri della crescita. L’obiettivo dichiarato è quello di portare il Paese, entro il 2035, a un livello di sviluppo “medio-alto”, riducendo il peso delle costruzioni tradizionali e spingendo innovazione e servizi.

Ma la sfida è delicata: sostituire in pochi anni un modello trainato dal mattone e dalle grandi opere con uno fondato sulla produttività e sui consumi interni richiede tempo, fiducia e un contesto globale meno ostile.

Gli effetti sul resto del mondo

Il rallentamento cinese non resta confinato entro i suoi confini. Per molti Paesi esportatori di materie prime, dalla siderurgia alle terre rare, una Cina che cresce meno significa minore domanda e prezzi sotto pressione. Per le economie avanzate, invece, la combinazione di domanda debole e possibile eccesso di capacità produttiva in alcuni settori può tradursi in ondate di export a basso prezzo, con impatti sulla concorrenza e sull’inflazione.

Anche l’Europa, stretta tra rallentamento interno e tensioni geopolitiche, guarda con attenzione ai dati di Pechino. Una Cina meno vivace riduce le opportunità per le imprese esportatrici, ma al tempo stesso può significare prezzi più bassi per molte importazioni, con effetti contrastanti su crescita e margini aziendali.

Per i mercati finanziari globali, la combinazione di crescita cinese più lenta, crisi immobiliare e debito elevato rappresenta una fonte di rischio costante: ogni sorpresa negativa sui dati o sulle politiche di Pechino può tradursi in volatilità su valute, materie prime e borse.

Un autunno complicato per la seconda economia del mondo

I numeri di ottobre consegnano l’immagine di una Cina che non è in recessione, ma sta rallentando visibilmente. La produzione industriale rallenta, i consumi arrancano, gli investimenti si contraggono, il mattone resta in apnea. Al tempo stesso, il mercato del lavoro tiene e la leadership politica mostra di voler difendere l’obiettivo di crescita annua.

La domanda chiave è se basteranno stimoli mirati e ritocchi di politica monetaria a rimettere in moto la macchina, o se servirà una cura più profonda: riforme strutturali, maggiore trasparenza sui conti di governi locali e aziende pubbliche, redistribuzione del reddito verso le famiglie, apertura più ampia ai capitali esteri.

Per ora, una cosa è certa: l’autunno dell’economia cinese non è ancora inverno, ma il clima si è fatto decisamente più freddo. E il resto del mondo non può permettersi di ignorare la temperatura che scende a Pechino.

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