Caso Grillo: impedire il linciaggio, in aula e mediatico

- di: Redazione
 
Chi, per lavoro, per curiosità o perché costretto, ha frequentato le aule di giustizia sa perfettamente che la realtà che vi si vive ha poco a che spartire con la vita vera. 
Perché tutto è regolato da codici e da leggi, intorno ai quali si può articolare un dibattito, senza avere certezze su come evolverà perché ciascuno è padrone di farsi la sua idea sui fatti di causa. 
Lo tengano bene a mente coloro che, in questi giorni, leggono le cronache del processo al figlio di Beppe Grillo e ad altri ragazzi accusati di avere stuprato, in un rito tribale collettivo, una loro coetanea. Gli imputati si difendono, seguendo la linea quasi comune a chi si trova nelle loro condizioni, cioè del rapporto sessuale consenziente. Una linea seguita pedissequamente nel caso in cui non ci siano evidenze incontrovertibili sulla coercizione della vittima (o, a detta degli imputati, presunta tale).

Caso Grillo: impedire il linciaggio, in aula e mediatico

In un processo i ruoli sono (quasi sempre) ben definiti: il pubblico ministero e la parte civile che si impegnano a dimostrare la colpevolezza degli imputati; i difensori a conclamare la loro innocenza. 
E questo - anche se è brutale assistervi, pur se vengono rispettati i confini dettati dal presidente del tribunale - si traduce sempre nel tentativo dei difensori di screditare le vittima, mettendo in risalto eventuali incongruenze o falle nel suo racconto, al fine di dimostrarne l'inattendibilità. 
E' quanto sta accadendo anche nel tribunale di Tempio Pausania. In fondo si tratta di un déjà vu comune ai processi per violenza sessuale nei quali gli imputati si dicono innocenti. Quindi non deve affatto sorprendere che uno degli avvocati dei nutriti collegi di difesa si sia soffermato, a lungo, non tanto sul ''prima'' e ''dopo'', ma sul ''durante'' quello che, per l'accusa, è stato uno stupro.
Non deve sorprendere, quindi, che sia accaduto, perché è questo il lavoro di un difensore, che, se ha mano libera lasciata da chi presiede il dibattito, può chiedere quel che vuole. 

Ma se questo si traduce in una criminalizzazione della vittima, fatta passare per una che ''ci è stata'' e che dopo si è pentita di quanto fatto, magari per metterlo a reddito, qual è il confine tra l'esercizio dei diritti della difesa e la demolizione della parte offesa, non come vittima, ma come donna, quasi che questa condizione sia di per sé esposta alla menzogna o alla rimozione dei propri comportamenti?
Se l'obiettivo di qualsiasi difensore in casi di presunta violenza sessuale è quello di insinuare il dubbio che si sia trattato di un atto consenziente, ci si deve aspettare di tutto, perché l'avvocato cerca un piccolissimo pertugio nelle dichiarazioni della vittima per inficiarne l'attendibilità. 
Ma a che prezzo?
La domanda che ci si deve porre è se chiedere alla parte offesa, non tanto ''perché non ha urlato'' o ''perché non si è divincolata'', quanto perché, nel corso di un rapporto orale (che la ragazza ha detto le sia stato imposto con la forza), ''non ha usato i denti''. Né certo sorprende se, in questo crescendo di domande mirate a demolire la resistenza della vittima, al banco dei testimoni, il difensore chieda ''Se lei aveva le gambe piegate, come ha fatto a sfilarle gli slip?''.
Però, torniamo a dire, tutto nella norma (perché le regole in aule le detta, ripetiamo, il presidente), dal momento che il compito del difensore è portare a casa una assoluzione e non certo preoccuparsi degli effetti delle sue strategie.
E poi ci sono i media, che sul caso - visto il cognome di uno degli imputati - si sono buttati con una ferocia degna di menzione, se la si mettesse su tutti i casi di violenza sessuale, vera o presunta. 
Quindi, tutte le domande - poste in regime di processo a porte chiuse - sono poi oggetto di pubblicazione, senza problema. Se non quello che la vicenda è stata ed è ancora oggi oggetto di strumentalizzazioni, anche politiche (vedi l'attacco furibondo di Beppe Grillo all'avvocato Giulia Bongiorno, parte civile, ma anche parlamentare) che sembrano nemmeno considerare quello che sta passando la vittima. 
Una ragazza che, a seconda di chi ne scrive, viene descritta come una martire oppure una profittatrice, che ha interesse a monetizzare una avventuretta estiva.
Ma se questa è l'atmosfera che si è determinata, in aula e purtroppo anche fuori, qualcuno sta pensando all'impatto emozionale che il processo avrà nelle donne che, vittime di violenza sessuale, dovranno decidere se denunciare quanto è accaduto oppure se tenere tutto per loro, per evitare d'essere crocifisse dagli avvocati o dal cronista di turno?
Non è una domanda capziosa, ma la deduzione che questa vicenda (come altre in passato) abbia due piane di giudizio: quello di un tribunale e quello mediatico, che, alla fine resterà nella storia, quale che sia la sorte processuale degli imputati. Perché, santa o peccatrice, la protagonista suo malgrado di questo processo sarà marchiata a vita, porterà nelle sue carni una lettera scarlatta, magari impressa da qualche cronista che ne farà il nome. 
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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