Premio Tenco a Baglioni, meglio tardi che mai

- di: Barbara Leone
 
Quarant’anni. Ci sono voluti quarant’anni per ammettere Claudio Baglioni nel nobilissimo Olimpio della canzone d’autore. Quarant’anni durante i quali il cantautore romano è stato relegato allo stiracchiato ruolo di cantore dei buoni sentimenti, come se poi i buoni sentimenti siano una risibile appendice dell’animo umano. Non è bastato l’aver partorito il disco più venduto di sempre (“La vita è adesso”, che con più quattro milioni di copie vendute resta tutt’ora l’album più venduto di tutti i tempi in Italia), non è bastata l’impareggiabile ricerca stilistica di “Oltre” né il suo continuo reinventarsi e mettersi in gioco, laddove avrebbe potuto tranquillamente campare di rendita. Nulla di tutto ciò è bastato agli occhi della critica, per la quale egli è rimasto sempre e solo quello del passerotto e della maglietta fina, peraltro proclamata canzone del secolo. C’è sempre stata un’insopportabile punta di sarcasmo nel parlare di lui. A dispetto dei numeri, a dispetto dei successi e a dispetto, lasciatecelo dire, anche di una signorilità affatto scontata nello sfavillante (e molto spesso infido) mondo dello spettacolo. Perché gira che ti rigira amore bello, citazione voluta, alla critica Baglioni è sempre stato sulle balls. Semplicemente perché negli anni più complicati e bellicosi della storia italiana lui non s’è mai schierato.

Claudio Baglioni riceve il Premio Tenco alla carriera

E mentre i suoi colleghi cantavano di politica e rivoluzione lui, soprannominato da tutti Agonia, cantava l’amore e le storie quotidiane. Quelle delle persone normali, degli invisibili e delle ultime file. E nonostante tutto, vendeva più degli altri. Più di quelli bravi e impegnati, che magari avevano il macchinone parcheggiato in garage ma si presentavano ai concerti con l’utilitaria sgangherata. Quando fece il botto con “Questo piccolo grande amore”, uscito nel 1972 quindi esattamente cinquant’anni fa, il ragazzo di Centocelle se la dovette vedere con “Radici” di Guccini, con “Piazza Grande” di Lucio Dalla, con “I giardini di marzo” di Battisti e finanche con “Imagine” di John Lennon. Per un soffio non dovette all’epoca competere con Fabrizio De Andrè, in quell’anno assente dal mercato discografico perché stava scrivendo “Storia di un impiegato”. E indovinate chi in un battibaleno conquistò la vetta della classifica rimanendo per ben 21 settimane in top ten? Proprio lei, la tanto dileggiata maglietta fina. Che, giusto per dire, è ad oggi il singolo più venduto nella storia della discografia italiana. E’ questo il suo peccato originale che solo adesso, a 70 anni suonati, gli è stato abbuonato sabato “onorandolo” del Premio Tenco, rassegna dedicata alla canzone d’autore. Un Premio che, per la cronaca, negli anni è stato dato a cani e porci. Ma a lui no. Non ne era degno. Perché non è mai stato considerato veramente un cantautore. Non nel senso più alto e nobile del termine, legato a quella predisposizione storica che fa coincidere la canzone d’autore con la tradizione dei canti di lotta e di protesta dell’Otto e Novecento. Fondamentalmente è proprio in base a questo misunderstanding (che rasenta il falso storico) che s’è creata la convinzione che la canzone per essere d’autore debba necessariamente conservare quella genesi partigiana. Convinzione che però non tiene conto, forse anche un po’ in malafede, di almeno altri due luoghi genetici altrettanto fondamentali per la canzone d’autore: il melodramma italiano e la canzone napoletana, che niente hanno a che fare con la partigianeria e la politica.

Se a tutto questo s’aggiunge il fatto che Baglioni, un po’ per timidezza intrinseca un po’ perché evidentemente non gliene importava un fico secco, non ha mai prestato il fianco a collocazioni politiche d’alcun genere (leggesi sinistra, perché di questo si tratta) voilà: l’etichetta è servita. Claudio Baglioni=canzonette da falò e da amoreggiamenti adolescenziali. Etichetta che deflagrò quasi violentemente nella dura contestazione da parte del pubblico durante la partecipazione di Baglioni a un concerto del 1988 organizzato da Amnesty International a Torino: per loro, e per la critica, Baglioni non era degno di salire su quel palco impegnato. Tanto da venir preso letteralmente a pomodori e ortaggi vari in faccia. Peccato che poi è stato proprio lui, coi fatti e non soltanto con musica e parole, a schierarsi al fianco dei migranti di Lampedusa con ‘O scià. E che quando c’è stato da prendere pubblicamente posizione a difesa dei più deboli non c’ha pensato un attimo, a costo di venir duramente criticato come recentemente accaduto nel corso di uno dei due Festival di Sanremo che ha diretto. La verità è che, pregiudizio a parte, chi storce il naso al cospetto del suo nome molto semplicemente non ne conosce la cifra artistica. Che è ben più alta di tanti suoi veneratissimi colleghi impegnati. E non da oggi, e nemmeno da ieri. Ma proprio dai lontanissimi anni Settanta.

Quando sì, è vero: Baglioni non parlava nelle sue canzoni di politica e di rivoluzione. Ma raccontava del “Vecchio Samuel”, morto aspettando una pensione che non arriva mai. E sublimemente narrava la solitudine delle città in “Poster”, parlava delle “Ragazze dell’est” e dei “Vecchi” all’alba degli anni Ottanta e di “Pace” in quel capolavoro assoluto di testi, musica e arrangiamenti che è “Oltre”. Giusto per fare qualche esempio. Oggi, vivaddio, “il cantastorie dei giorni nostri” s’è preso la sua rivincita. Premiato, con imperdonabile ritardo, per la sua “raffinata scrittura musicale”, come si legge nelle motivazioni del Club Tenco che sabato scorso gli ha consegnato il Premio. E, guarda un po’, finalmente gli riconoscono che lui “sin dalla fine degli anni Sessanta ricerca attraverso la canzone quell’attimo di eterno che tramite l’arte sappia descrivere la vita, per ‘battere il tempo a tempo di musica’”. E che “ha cantato le storie minime che sono di tutti e i grandi temi dell’uomo, quando con la sua Trilogia dei colori ha cercato risposte a domande universali. Suo il disco italiano più venduto di sempre (La vita è adesso), sua la canzone del secolo (Questo piccolo grande amore), e una ricerca continua nei live, fino all’evento totale al Teatro dell’Opera di Roma. Suo il ponte umano costruito con O’Scià, a Lampedusa, lì dove serve essere presenti, dove la musica si fa canto, fiato, afflato, reale mano tesa verso l’altro”. Della serie, meglio tardi che mai. 
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Italia Informa n° 2 - Marzo/Aprile 2024
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