Il “pos” della discordia e la lezione di Londra

- di: Simone Filippetti (giornalista del Sole24ore)
 
A marzo del 2020, quando tutto il mondo entrò per la prima volta scoprì la quarantena su scala globale, il primo  “coprifuoco” dalla Seconda Guerra Mondiale, in tutti i negozi di Londra, grandi o piccoli, di quelli rimasti aperti, apparve un cartello: “Non si accettano contanti, usare soltanto carte di pagamento”.  I soldi, come ci dicevano i nonni quando eravamo bambini, sono la cosa più sporca di tutte perché passano nelle mani di tutti: per fermare il virus, prima ancora di discutibili mascherine, il Regno Unito ha bloccato il contante, primo veicolo di contagio.  Da allora, in un paese già prima del Covid altamente informatizzato, il contante è praticamente scomparso. Oggi, dal piccolo tabacchino dentro la stazione della metropolitana di Earl’s Court, gestito dall’immancabile immigrato pachistano, che vende anche pasta e sughi Barilla, pago col bancomat anche un singolo pacchetto di fazzoletti di carta, che costa 80 pence. I pagamenti digitali, con bancomat e carte di credito o con Google Pay e Apple Pay sul telefonino) erano molto diffusi da prima: la pandemia ha solo dato la spallata finale. Vivo a Londra da tre anni e nel mio portafoglio non ci sono mai sterline (se non saltuariamente per pagare qualche tata, ma anche loro ormai usano le app di Revolut e Starling Bank o si fanno pagare via Uozzap). Nessuno ha mai imposto nulla: semplicemente le persone si sono adeguate a un cambiamento, senza patemi né drammi. In Italia, nell’estate più bollente di sempre, va in onda l’ennesimo psicodramma nazionale: il POS. Il governo (ormai dimissionario ndr) lo vuole imporre obbligatorio, il Paese si ribella. Visto da Londra, la questione è surreale: possibile che nell’Anno Domini 2022, quando ogni italiano possiede uno o più smartphone, ancora si dibatta sul contante? Il difetto parte dallo Stato è già nel manico: una pletora di servizi pubblici funzionano solo con i contanti e su carta: prendete i biglietti del bus o della metro. Bisogna comprare il tagliando e “obliterarlo” parola che da sola racchiude le storture del paese.

Ma ecco che, per sanare decenni di ritardo e di abuso del contante, che alimenta nero e sommerso, l’Italia vorrebbe all’improvviso imporre a tutti il POS di Stato, trasformando Roma in Londra ex abrupto e per decreto ministeriale. E allora ecco le polemiche, immancabili, e poi l’impantanamento. L’Italia dovrebbe dare un’occhiata di tanto in tanto all’Inghilterra: il sano pragmatismo britannico è la miglior ricetta per governare. Oltremanica negozi e commercianti accettano sempre senza fare un plissé bancomat e simili, eppure non c’è nessun obbligo. Il Governo di Sua Maestà non ha mai obbligato l’utilizzo del Pos: si è imposto per abitudine e comodità. Aiutate, però, da un incentivo concreto: le commissioni delle banche sono tali che anche comprare un pacchetto di fazzoletti abbia senso per il commerciante. Certo, è odioso quando, alla stazione di Milano o Roma, dopo magari 30 minuti di fila, il tassista, con aria serafica, e impunita, dice che ha il POS rotto, oppure che proprio quel giorno non prende la linea. A Londra il tassista non può rifiutare il Pos per il semplice motivo che non lo gestisce lui, ma il terminale è collocato vicino al passeggero. Non tutti i tassisti sono ovviamente uguali, ci sono anche tanti onesti lavoratori. Soprattutto nelle metropoli, è inaccettabile che, tra mille scuse, i cittadini-consumatori non possano pagare come vogliono e, soprattutto, una parte di paese sistematicamente provi a bypassare il processo pos-tracciabilità-tasse.

C’è però anche un’altra Italia: è quella di provincia, dove molti piccoli artigiani e commercianti stanno a galla col “contante”  e dove una tracciabilità totale rischia di essere fatale. Il problema non sta nel Pos ma nell’obbligo da un giorno all’altro che, come tutte le imposizioni, fa più danni che benefici quando si tratta di gestire la Res Publica. I pagamenti elettronici sono essenziali per far emergere il nero e il sommerso, per una giustizia fiscale e morale del paese: le tasse le devono pagare tutti i cittadini per la tenuta di quel patto sociale che sta alla base di ogni nazione. Ma adottare lo stesso metodo, da Milano a Canicattì, è miope e sbagliato. Lotta dura all’evasione, sì, ma anche rendersi flessibili al fatto che una grossa fetta di Paese, lontano dalle ricche metropoli, sopravvive alla burocrazia e a una tassazione soffocante anche grazie al contante. Il lunare dibattito sul Pos mostra ancora una volta un Paese, che passa sempre da un eccesso all’altro. Dopo decenni di evasione fiscale patologica e mai combattuta, si pretende di diventare la Svezia per decreto. L’alunno discolo non diventerà il primo della classe per imposizione.
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