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Ucraina, i negoziati di Istanbul e la diplomazia che non basta più

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ucraina, i negoziati di Istanbul e la diplomazia che non basta più

Nuovi negoziati. Un altro tentativo. A Istanbul, da mercoledì, le delegazioni si incontreranno di nuovo per provare a immaginare una tregua, un compromesso, un dialogo, forse solo un cessate il fuoco. Lo annuncia Volodymyr Zelensky, ma il tono non è di entusiasmo. È di urgenza. “Serve più dinamismo”, dice. E aggiunge: “Le trattative saranno efficaci solo se saranno condotte tra leader”. Come a dire: basta tecnicismi, basta rinvii, basta parole dette per protocollo. Il tempo stringe.

Ucraina, i negoziati di Istanbul e la diplomazia che non basta più

Ma il Cremlino gela l’annuncio. “Servirà molto lavoro prima di vedere progressi”, dichiara in una nota Dmitry Peskov. Non una smentita. Ma quasi una dichiarazione preventiva di fallimento. I russi parlano come se l’incontro fosse già superato dai fatti. Come se fosse solo una parentesi tra un missile e l’altro.

I missili cadono mentre si parla
Nel frattempo, l’Ucraina continua a essere bersaglio di attacchi massicci. Le sirene non smettono mai di suonare. Odessa, Kharkiv, Dnipro, Kiev. Ogni giorno nuovi allarmi, nuovi crateri, nuove vittime. Non è una guerra congelata. È una guerra viva, sanguinante. E trattare mentre si muore è l’antitesi della diplomazia. È il suo paradosso più crudele. La pace non si costruisce mentre piovono razzi. La pace vera, se arriverà, dovrà nascere dopo. Molto dopo. Quando la morte avrà finalmente smesso di parlare.

Un vertice che sa di routine
I negoziati di Istanbul hanno il sapore del déjà vu. Se ne sono visti altri. Tavoli aperti, sguardi duri, strette di mano fredde, comunicati fotocopia. Nessuno ci crede più fino in fondo. Eppure si fa. Perché non negoziare sarebbe peggio. Perché l’assenza di dialogo è un abisso ancora più cupo. Ma questa routine della pace sembra ormai solo una scenografia, una messinscena necessaria a salvare la faccia, a dimostrare che qualcosa si muove, anche se tutto resta immobile.

Zelensky cerca l’interlocutore diretto
Zelensky insiste: “Non basta parlare tra delegazioni. Dobbiamo guardaci negli occhi tra capi di Stato”. Lo dice per spingere Vladimir Putin a uscire dal bunker retorico in cui si è rinchiuso. Ma Putin, al momento, non ne ha alcuna intenzione. Non si presenta. Non concede spazi. Lascia che siano i suoi a prendere appunti. A rallentare, a congelare ogni spiraglio. E così la guerra continua. E le trattative restano in una terra di nessuno, dove la pace non trova casa.

La Germania prova a muoversi, ma con le armi

Nel vuoto diplomatico, la Germania sceglie un’altra strada: fornire all’Ucraina cinque batterie di Patriot. Difesa aerea. Altro che dialogo. Berlino agisce in silenzio ma con decisione. Sa che la difesa ucraina è l’unico scudo oggi possibile contro gli attacchi russi. Ma sa anche che ogni invio di armi è un passo ulteriore verso la cronicizzazione del conflitto. L’Europa appare spaccata: diplomazia formale da un lato, logistica militare dall’altro.

Il mondo guarda, ma non ascolta

Mentre Istanbul si prepara a ospitare il prossimo round, la sensazione è che il mondo guardi, ma non ascolti. La guerra in Ucraina è diventata sfondo. Una tragedia trasformata in riquadro fisso dei telegiornali. Si parla più di Gaza, di Taiwan, dei dazi. Kiev rischia di diventare una guerra dimenticata a metà. Troppo presente per essere ignorata, troppo lunga per essere raccontata ancora. Eppure ogni giorno, in Ucraina, si continua a morire. In silenzio. Anche mentre si parla di pace. Anche mentre si stringono mani. Anche mentre si firma il nulla.

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