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Tuvalu verso l’Australia: inizia il fenomeno dei migranti del clima

- di: Marta Giannoni
 
Tuvalu verso l’Australia: inizia il fenomeno dei migranti del clima
Tuvalu verso l’Australia: il primo corridoio per i migranti del clima

Da un arcipelago alto quanto un marciapiede a un visto permanente: il patto Falepili inaugura una “fuga” regolata (e soprattutto raccontabile) dall’innalzamento del Pacifico. 

(Foto: innalzamento dei mari a causa del riscaldamento globale iniziano a produrre i loro effetti).

Il giorno zero della migrazione climatica “con biglietto”

È una scena piccola, quasi domestica, eppure carica di futuro: i primi cittadini di Tuvalu sono sbarcati in Australia attraverso un nuovo canale di ingresso disegnato esplicitamente per la crisi climatica. Non un’evacuazione d’emergenza, non un visto “umanitario” a posteriori, ma un percorso stabile che prova a trasformare l’inevitabile in qualcosa di governabile: mobilità, lavoro, studio, radici che non si spezzano.

Nel primo gruppo ci sono profili che, messi in fila, sembrano un romanzo breve sul presente: un dentista, un pastore determinato a non perdere la vita comunitaria a migliaia di chilometri da casa, e una lavoratrice specializzata che punta a rimettersi subito in pista. L’idea è semplice e ambiziosa: partire senza cancellarsi.

Perché Tuvalu è il simbolo perfetto

Tuvalu è un mosaico di atolli nel Pacifico centrale, tra Australia e Hawaii, con circa 11 mila abitanti. Qui il tema non è “tra decenni”: è adesso. Quando la terra sta a pochi metri dal mare, ogni alta marea e ogni tempesta diventano una prova generale di ciò che potrebbe essere permanente.

Nelle proiezioni citate da fonti governative e internazionali riprese dai media, ampie porzioni di Funafuti (l’atollo principale) rischiano di finire sott’acqua entro metà secolo in diversi scenari. E la questione non è solo la linea di costa: sono l’acqua dolce, i campi, le case, le strade, le scuole. Quando l’intrusione salina entra nella quotidianità, l’isola si restringe anche senza “sparire” su una mappa.

Il patto Falepili: cosa prevede davvero

Il meccanismo nasce dentro il trattato Australia–Tuvalu Falepili Union: un accordo bilaterale che unisce sicurezza, cooperazione e clima. Il dettaglio che ha fatto il giro del mondo è il “numero”: fino a 280 visti all’anno, con un obiettivo dichiarato di equilibrio: offrire un’uscita reale a chi lo desidera senza svuotare di colpo un Paese minuscolo.

Il percorso, noto come Falepili Mobility Pathway, si attiva tramite selezione e quote. Nel 2025, all’apertura delle registrazioni, la risposta è stata massiccia: migliaia di persone hanno provato a entrare nel sorteggio, segno che il “piano B” non è più un discorso teorico ma una scelta familiare, economica, emotiva.

L’architettura del programma è pensata per evitare l’effetto tagliola: i nuovi arrivati possono inserirsi nel mercato del lavoro e nei servizi, ma l’idea politica è mantenere ponti praticabili con l’arcipelago: rimesse, competenze che tornano, comunità che resta connessa.

“Mobilità con dignità”: le parole che fanno la differenza

Nel lessico diplomatico non mancano mai le formule. Qui però la formula diventa programma: la ministra degli Esteri australiana Penny Wong ha presentato il canale come una “mobilità con dignità”, sottolineando che i tuvaluani potranno vivere, studiare e lavorare in Australia mentre gli impatti climatici peggiorano.

È una frase che pesa perché sposta il frame: non “profughi” che arrivano quando tutto è crollato, ma persone che scelgono il tempo e il modo della propria transizione. E, insieme, una frase che fa discutere: perché la dignità, per reggere, ha bisogno di numeri, servizi, case, scuola, sanità, lavoro vero. Non solo di buone intenzioni.

Chi parte, dove va: città, regioni e il fattore “rete”

La geografia della destinazione conta quanto quella di partenza. I primi nuclei sono diretti verso grandi centri e aree regionali: Melbourne, Adelaide, Darwin e anche cittadine dove già esistono comunità di lavoratori del Pacifico impiegati in agricoltura stagionale e lavorazione delle carni. È la logica della rete: se hai qualcuno che ti spiega come funziona un contratto, una scuola, un affitto, la migrazione smette di essere salto nel vuoto.

Un caso emblematico è quello di un pastore destinato a Naracoorte (Australia Meridionale), con l’idea di offrire guida spirituale e coesione comunitaria. In migrazioni piccole ma intense, le figure-ponte (religiose, associative, culturali) diventano infrastrutture tanto quanto le case.

Il dilemma: salvare le persone senza “svuotare” lo Stato

C’è un punto che rende Tuvalu un laboratorio globale: se una parte consistente della popolazione se ne va, cosa resta dello Stato? Non solo in termini di forza lavoro (sanità, scuola, servizi), ma di continuità politica, identità, sovranità.

L’accordo Falepili include anche un tema enorme: il riconoscimento della continuità di Tuvalu come soggetto statale persino in scenari estremi di perdita di territorio. È un tentativo di rispondere a una domanda che il diritto internazionale non ha mai dovuto gestire su larga scala: può esistere una nazione senza terra abitabile?

Non solo valigie: adattamento, dighe, terra “ricostruita”

Parlare di migrazione non significa rinunciare all’adattamento. A Tuvalu sono in corso (e in programma) interventi di protezione costiera, rialzi, barriere, progetti di resilienza: lavori che non “cancellano” la minaccia, ma possono guadagnare tempo e sicurezza. Quel tempo, per molti, è la risorsa più preziosa: permette di scegliere, non di scappare.

In parallelo, la discussione globale resta aperta: alcuni studi mostrano che, in certe condizioni, isole coralline possono anche cambiare forma e talvolta espandersi per dinamiche sedimentarie. Ma qui la linea è chiara: anche quando la superficie non diminuisce, la vivibilità può peggiorare per acqua salata, erosione, mareggiate più distruttive.

Perché questo caso può fare scuola (e perché non basta copiarlo)

Il corridoio Tuvalu–Australia è già un riferimento perché mette insieme tre ingredienti che raramente convivono: un trattato (non un progetto pilota), una quota annuale (non un’eccezione), un linguaggio politico esplicito sul clima.

Ma il “modello” non è un timbro da appiccicare altrove. Funziona perché i numeri sono gestibili, perché c’è una prossimità regionale, perché l’Australia ha interesse strategico nel Pacifico e perché Tuvalu usa già l’Australian dollar e ha legami storici con l’area. Per molte altre realtà esposte all’innalzamento dei mari, servirebbero strumenti più ampi: canali plurimi, fondi, patti multilaterali.

Cosa succede adesso

Nel breve periodo, la sfida è pratica: inserimento lavorativo, scuola per i figli, accesso ai servizi, alloggi, riconoscimento delle competenze. Nel medio, la sfida è comunitaria: mantenere lingua, riti, legami mentre il centro di gravità si sposta.

Nel lungo periodo, la domanda torna lì dove fa più male: quanta parte di Tuvalu potrà restare abitabile e per quanto? Ogni nuovo arrivo in Australia non è soltanto una storia personale: è una pagina di un atlante che si sta riscrivendo, centimetro dopo centimetro.

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