Donald Trump ha parlato da L’Aja, dove è in corso il vertice della Nato, e lo ha fatto con toni sorprendentemente distesi. In un momento in cui l’equilibrio geopolitico del Medio Oriente è ancora segnato da profonde ferite, il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che la tregua tra Israele e Hamas sta procedendo in maniera positiva e che lo Stato ebraico ha fatto un passo indietro decisivo. “La tregua sta andando bene, Israele ha fatto retromarcia e sono molto orgoglioso di loro”, ha affermato, lasciando intendere un coinvolgimento diretto, o quanto meno un’influenza politica, sul rallentamento dell’escalation bellica.
Trump tra Israele e Iran: “La tregua sta andando bene”. Clima disteso anche da Teheran
Non è un’affermazione da poco, se si considera che solo poche settimane fa l’intera regione era sull’orlo di una nuova catastrofe militare. La capacità di rinegoziare una tregua e il rilancio della diplomazia sembrano tornare centrali nelle dichiarazioni di Trump, che si mostra in cerca di un ruolo da pacificatore globale proprio nel pieno della campagna per le presidenziali statunitensi.
Il nuovo rapporto con l’Iran e l’effetto Hiroshima
Ancora più sorprendenti le parole sul rapporto con l’Iran. “L’ultima cosa che vogliono fare ora gli iraniani è arricchire l’uranio. Non costruiranno la bomba per molto tempo. Ora andiamo molto d’accordo con l’Iran”, ha detto Trump, lasciando intendere che i canali diplomatici tra Teheran e Washington siano ben più attivi e fruttuosi di quanto noto finora.
Il riferimento al sito nucleare di Fordow è stato ancora più netto: “C’è stata distruzione totale, come Hiroshima. Ha chiuso la guerra”. Un’affermazione che suona come un riferimento simbolico più che tecnico, ma che dà il senso della rottura di un ciclo e della volontà di voltare pagina dopo anni di sanzioni, minacce e tensioni sul nucleare.
Teheran apre al dialogo con Washington
Dall’altra parte, anche l’Iran ha fatto un passo nella stessa direzione. In una conversazione telefonica con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il neoeletto presidente Masoud Pezeshkian ha espresso la disponibilità dell’Iran a ricomporre le divergenze con gli Stati Uniti. “L’Iran è pronto a risolvere i problemi con gli Stati Uniti sulla base del quadro internazionale. Non chiediamo altro che i nostri diritti”, ha affermato Pezeshkian, sottolineando un cambio di tono rispetto alle precedenti amministrazioni.
Il messaggio è chiaro: dopo anni di isolamento, l’Iran vuole tornare protagonista sulla scena internazionale, a patto che siano riconosciuti i propri interessi. Il riferimento al quadro internazionale è cruciale perché implica il coinvolgimento di organismi multilaterali e un superamento della logica bilaterale che ha dominato la stagione delle sanzioni e dell’accordo sul nucleare (JCPOA).
Verso un nuovo equilibrio in Medio Oriente
Le parole pronunciate oggi da Trump e da Pezeshkian potrebbero rappresentare un punto di svolta. La tregua tra Israele e Hamas, se confermata e rafforzata, potrebbe fare da cornice a un nuovo assetto regionale dove il dialogo prende il posto della deterrenza armata. È evidente che entrambi i leader hanno motivazioni politiche interne per mostrarsi aperti e ragionevoli: Trump cerca legittimazione internazionale e credibilità da uomo di Stato, mentre Pezeshkian, espressione dell’ala più moderata della Repubblica Islamica, ha bisogno di segnali di distensione per consolidare il suo ruolo, anche in chiave economica.
Ma a rendere la prospettiva interessante è il fatto che entrambi si rivolgono a terze parti – la Nato, l’Arabia Saudita – come mediatori o garanti di questo nuovo dialogo. L’asse Washington-Riyad-Teheran, per anni considerato irrealizzabile, comincia ad assumere contorni più definiti proprio grazie alla sponda della diplomazia multilaterale.
L’influenza americana su Israele e la partita politica interna
Il riferimento di Trump alla “retromarcia” di Israele mostra anche la volontà americana di ricollocarsi come arbitro e non solo come alleato incondizionato. Non è un segreto che negli ultimi mesi le pressioni americane sul governo di Netanyahu siano aumentate, sia sul piano militare che su quello delle relazioni con i Paesi arabi. La retorica di Trump, che si dice “orgoglioso” della scelta israeliana di fermarsi, suggerisce che le leve diplomatiche di Washington abbiano prodotto risultati, seppur temporanei.
Il legame tra queste mosse e la campagna presidenziale americana è evidente. Trump cerca di recuperare terreno anche tra i centristi e i moderati, mostrando una visione internazionale più pragmatica e meno aggressiva rispetto al primo mandato. Allo stesso tempo, prova a scardinare l’immagine di Biden come unico garante della stabilità globale. In questa narrazione, la “retromarcia” israeliana diventa una medaglia da appuntarsi sul petto davanti all’elettorato internazionale.