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A Rebibbia il 41° suicidio del 2025: vergogna di Stato

- di: Marta Giannoni
 
A Rebibbia il 41° suicidio del 2025: vergogna di Stato

Decine di migliaia chiedono a Netanyahu e Trump un accordo su Gaza.
In piazza anche ex prigionieri di Hamas e famiglie degli ostaggi.
Manifestazioni in tutto il Paese, governo in crisi dopo l’addio di Shas.
Sale la pressione su una leadership divisa e senza soluzioni credibili.
Le piazze spingono per una svolta: “La politica venga dopo le vite”.

Una notte di voci e coraggio

“Non vogliamo vendetta, vogliamo i nostri figli a casa.” È il grido che ha attraversato la notte di Tel Aviv sabato 19 luglio, quando una marea umana ha invaso il cuore della città chiedendo a gran voce un accordo immediato con Hamas per il rilascio degli ostaggi.

In centinaia di migliaia si sono radunati a piazza Habima, ribattezzata “Hostages Square”, per chiedere la fine della guerra a Gaza e il ritorno dei loro cari.

La manifestazione, la più imponente dall’inizio del conflitto, ha visto la partecipazione attiva di ex ostaggi rilasciati, famiglie dei prigionieri ancora detenuti e moltissimi giovani.

“Abbiamo perso troppo tempo, troppi morti, troppa indifferenza. Se c’è una finestra negoziale, va aperta ora”, ha dichiarato Einav Zanguaker, madre di uno degli ostaggi. “È il momento che Israele si unisca agli Stati Uniti per realizzare la visione di Trump e riportare tutti a casa”.

La piazza contro Netanyahu

I manifestanti non si sono limitati a Tel Aviv. Proteste si sono svolte anche a Gerusalemme, Haifa, Be’er Sheva, Modiin e Ashdod. Centinaia di persone in ciascuna città, collegate dallo stesso obiettivo: ottenere una tregua negoziata.

Il 15 luglio il partito ultraortodosso Shas ha annunciato il proprio ritiro dal governo. La motivazione ufficiale: l’incapacità di garantire l’esenzione militare per gli studenti delle yeshivot, ma anche l’inazione sul fronte degli ostaggi.

Con l’uscita di Shas, la maggioranza di Netanyahu scende a 50 seggi su 120. Una crisi che apre scenari incerti. Intanto, le piazze urlano: “Bibi vattene”.

Il ruolo ambiguo di Trump

Donald Trump ha dichiarato il 18 luglio: “Altri dieci ostaggi saranno rilasciati molto presto”. Ma l’annuncio è stato accolto con scetticismo da stampa e familiari.

Secondo fonti diplomatiche, Trump avrebbe fatto pressioni su Qatar ed Egitto per mediare, ma senza risultati concreti. Hamas ha confermato che “la trattativa non è morta”, ma chiede il ritiro totale delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza come condizione minima.

I negoziati a Doha: una strada in salita

Il tavolo negoziale si è riaperto a Doha il 6 luglio su spinta americana. La proposta degli Stati Uniti prevede tre fasi: cessate il fuoco di 60 giorni, scambio graduale ostaggi-detenuti, e ritiro progressivo delle forze israeliane.

Hamas avrebbe accettato solo la prima fase, rifiutando le altre per mancanza di garanzie. Israele, dal canto suo, rifiuta concessioni “prima della fine di Hamas”.

Intanto, continuano i raid aerei su Rafah e Gaza City. Il 14 luglio almeno 17 civili sono stati uccisi mentre cercavano di attraversare un corridoio umanitario.

Una società divisa, ma sempre più stanca

Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, il 62% degli israeliani ritiene che il governo stia fallendo nel riportare indietro gli ostaggi e il 57% è favorevole a un accordo anche a costo di concessioni territoriali.

Solo il 31% sostiene la prosecuzione dell’operazione militare. Una linea dura che si sta logorando.

“L’ossessione per l’annientamento di Hamas ha messo in secondo piano le nostre famiglie”, ha dichiarato Moshe Yaalon, ex ministro della Difesa. “Abbiamo trasformato gli ostaggi in un mezzo, non in una priorità”.

La piazza che cambia il corso della guerra

La manifestazione del 19 luglio rappresenta un punto di svolta. Per dimensioni e composizione: famiglie religiose, giovani laici, militari in congedo, perfino coloni. Un nuovo fronte civico che può rompere l’inerzia istituzionale.

I leader dell’opposizione, da Benny Gantz a Yair Lapid, hanno sostenuto la mobilitazione. “Il tempo delle parole è finito. La pressione internazionale può aiutare, ma serve un cambiamento interno”, ha detto Lapid.

Secondo l’analista Tal Schneider, “Netanyahu è isolato come non mai: la società chiede risposte, non slogan”.

Una sfida che parte dal basso

L’eco di Tel Aviv arriva fino a Gerusalemme e Washington. Se le trattative di Doha falliranno, sarà ancora la piazza a indicare la rotta.

In un Paese prigioniero dei suoi equilibri, la voce degli ostaggi e delle loro famiglie torna ad essere la bussola morale.

Una bussola che dice, senza esitazioni: prima le vite, poi la politica.

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