In cielo, a Messina, sono volati palloncini bianchi. Il gesto è diventato ormai liturgia civile. Una ragazza viene uccisa, la comunità si raccoglie, qualcuno porta fiori, qualcuno una candela, qualcun altro scrive “non ti dimenticheremo mai” su un cartello scarno.
Palloncini bianchi per Sara, lacrime a Messina: l’Italia senza respiro davanti ai corpi delle sue figlie
Ma alla fine, sempre, ci sono quei palloncini che si staccano in silenzio. Come se il lutto collettivo avesse bisogno di un segno fisico, lieve e struggente, per rendere visibile il dolore che le parole non sanno più dire. Sara è morta. E non c’è nulla da aggiungere. Se non che, ancora una volta, la cronaca ci sbatte in faccia la domanda che da anni ci rifiutiamo di affrontare davvero: quante figlie deve ancora seppellire l’Italia prima di decidere che basta?
Sara è l’ennesima vittima. Non un caso isolato, non una fatalità. Ma un corpo sacrificato su un altare antico, quello del possesso. L’uomo che la uccide non lo fa in preda a un raptus, ma perché crede di avere diritto di decidere sulla sua vita. Il movente non è mai l’amore. È il dominio. È la pretesa. È quella cultura carsica che affiora ogni volta che una donna dice “no” e viene per questo colpita, ferita, strangolata, cancellata. Il femminicidio non è un’emergenza. È una struttura. E se non la riconosciamo come tale, continueremo a contarle, le vittime, come se fossero numeri e non nomi, fotografie sbiadite su un muro, palloncini che salgono al cielo senza mai tornare.
Il rito funebre come forma di protesta silenziosa
I funerali di Sara, come quelli di tante altre, sono cerimonie doppie. Da un lato il dolore privato, familiare, indelebile. Dall’altro la componente pubblica, sociale, politica. La bara bianca, i fiori chiari, gli sguardi smarriti. E poi il grido silenzioso di una città intera che si sente colpita, umiliata, colpevole. Perché tutti sappiamo che quei gesti arrivano sempre troppo tardi. Che quando si uccide una ragazza, qualcosa non ha funzionato nel sistema delle tutele, dei segnali trascurati, della rete che avrebbe dovuto stringersi attorno a lei prima che fosse tardi. E allora la messa diventa denuncia. L’abbraccio della comunità diventa atto politico. E il cielo, pieno di palloncini bianchi, un campo di battaglia.
La stanchezza di uno Stato che non trova il linguaggio giusto
Ogni volta che accade, lo Stato parla. Il ministro competente annuncia nuove misure, si promettono fondi, si aprono tavoli. Ma la sensazione è sempre la stessa: non sappiamo più come affrontare questo fenomeno. O forse non vogliamo farlo fino in fondo. Perché affrontarlo significa guardare in faccia la diseguaglianza strutturale, l’asimmetria di potere tra uomini e donne che ancora persiste, nelle case, nei tribunali, nei linguaggi. Affrontarlo significa cambiare mentalità, educazione, cultura. E questo richiede tempo, coraggio, volontà politica. Tutte cose che sembrano mancare, mentre le bare bianche si accumulano.
Il lutto che interroga le coscienze, non le telecamere
A Messina, come in tanti altri funerali simili, non servono le dirette televisive né le frasi consolatorie. Serve una presa di coscienza collettiva. Sara non può essere dimenticata nel flusso delle notizie. Né può diventare solo uno dei volti nella galleria del dolore. Se davvero vogliamo onorarla, dobbiamo cominciare a costruire un Paese in cui nessuno abbia più bisogno di alzare gli occhi al cielo per salutare l’ennesima ragazza uccisa. I palloncini bianchi sono belli. Ma sono anche il simbolo di una resa. L’Italia deve decidere se vuole continuare a galleggiare nel lutto o cominciare a lottare, davvero, per non perdere un’altra Sara.