Le urne bastonano i 5S, il Pd ne prenda atto e rilanci l'azione del governo
- di: Diego Minuti
La politica (non solo in Italia, ma ovunque) dà il meglio di sé dopo un'elezione, che per definizione non si perde mai, quale che ne sia l'esito. Ci si riposiziona, ci si consolida, si pongono le basi per, si è frenata una tendenza non positiva.
I modi per non dire ''ok, ce le hanno date di brutto'' sono tanti e danno in qualche modo la misura della capacità dei politici di non ammettere mai, negando persino l'evidenza.
Per questo non deve sorprendere più di tanto che i Cinque Stelle - fatta qualche eccezione, dovuta a precedenti contrasti tra i vari 'presunti' capi -, nemmeno davanti all'enormità della sconfitta a regionali e comunali, abbiano avuto l'onestà di ammettere di avere cumulato una impressionante batosta elettorale.
Da questo punto di vista, nonostante la giovane età, Luigi Di Maio ha imparato in fretta e quindi è stato velocissimo ad intestarsi la vittoria del ''sì'' al referendum sul taglio dei parlamentari, scaricando la responsabilità della sconfitta a regionali e comunali su altri. Ovvero,Vito Crimi, che mai come in questi giorni si è dimostrato non all'altezza del compito di guidare una massa di grillini recalcitranti ad ogni autorità che non sia quella del singolo.
Le macerie che la consultazione s'è lasciate dietro devono aprire, in seno ai Cinque Stelle una riflessione, che però non può restare limitarsi al solo movimento, abbandonato da tantissimi elettori che si sono forse avveduti che un conto è urlare contro chi comanda, un altro è assumersi responsabilità quando si va a governare.
Lasciando agli esperti di demoscopia l'analisi del flusso dei voti, dei loro spostamenti e scostamenti in seno al corpo elettorale, l'evidenza oggi è un'altra, al di là dell'uso che ne fa un centrodestra che, al netto dei motivati trionfalismi per le vittorie in Veneto, Liguria e Marche, appare in uno stato di confusione politica.
Infatti, sembra non riuscire a capire che il continuo ricorso ad una politica muscolare, fatta di musi duri e promesse che adombrano chissà cosa (vedrete quel che accadrà quando sarò a palazzo Chigi, sembra dire in continuazione, quasi minacciando, Matteo Salvini) potrebbe non più convincere l'elettorato moderato, che chiede certezze e non promesse intrise di livore.
L'evidenza è che la maggioranza di governo, dal punto di vista della rappresentanza, non è più nelle mani dei Cinque Stelle e che tocca al Pd assumere maggiori responsabilità, non tanto in termini di numero di poltrone, ma di proposizioni e, quindi, iniziative.
E' questo - la rappresentanza dell'elettorato - un tema molto delicato perché è lo stesso sostenuto dall'opposizione che, contando quante regioni sono in mano al centrodestra (15 su 20), dice di avere la maggioranza nel Paese e quindi chiede che questo venga legittimato dal ritorno alle urne. Cercando peraltro, con rara ineleganza, di coinvolgere il presidente della Repubblica, al quale si chiede, nientemeno, di sciogliere le camere, sulla base di una molto elastica interpretazione delle sue prerogative fissate (non suggerite...) dalla Costituzione.
Parlando del quadro delineato dall'opposizione si può dire che non è esattamente corrispondente al vero, ma il ragionamento ci può anche stare.
Una maggioranza di governo non può essere disconosciuta ad ogni esito elettorale, altrimenti il parlamento perderebbe la sua funzione di rappresentanza del corpo politico del Paese, condizionato dal valore squisitamente localistico delle consultazioni regionali o anche nella grandi città. Ma è altrettanto vero che il Paese che, alla fine della passata legislatura, preparava il trionfo dei grillini, oggi non esiste più, travolto dalla delusione provocata da un movimento che gode in modo pittoresco dei suoi trionfi (reddito di cittadinanza, taglio dei parlamentari) perdendo di vista il legame che deve avere con il territorio.
In questo mostrando la sua originalità: un partito che non vuole essere tale, ma che si comporta come se lo fosse. Come ha fatto, sta facendo e intende fare nella corsa ad accaparrarsi incarichi e prebende. Quindi, tutto normale, perché è, dalla notte dei tempi, che si comporta così chi comanda.
Però i Cinque Stelle non sono soli in maggioranza e quindi tocca a qualcun altro fare in modo che il movimento esca da questa lunghissima e paralizzante fase di guerriglia interna e torni a determinare. Ma questa sembra solo un'utopia che deve spingere il Partito Democratico a prendere delle iniziative serie, che imprimano un cambiamento netto all'azione di governo. La legislatura andrà a scadenza, ma certo non può proseguire con il condizionamento giornaliera di un movimento che non ha saputo esprimere una classe di governo, limitandosi a perseguire pochi cavalli di battaglia che ama solo lui.
Nicola Zingaretti - la cui pacatezza sembra nuocergli, anziché caratterizzarlo - non è certamente il migliore segretario che il Pd ha avuto o poteva augurarsi, ma oggi deve uscire dal grigiore che caratterizza la sua leadership e cominciare a fare la voce grossa con alleati che, non rendendosene conto, se si andasse oggi al voto, rischierebbero di essere il quarto partito italiano. E in questo bisogna anche fare capire a Giuseppe Conte che, da presidente del consiglio espresso da una coalizione e non da un governo monocolore, non può fare finta che nulla sia accaduto. Anche perché i grillini restano prigionieri delle loro due anime: quella che vede nella sinistra - segnatamente il Pd - l'alleato naturale e l'altra che, non dichiaratamente, ma nella sostanza, resta di destra (nemmeno tanto moderata: basta ricordare il sì ai provvedimenti sulla sicurezza voluti da Salvini) e quindi rimpiange il Conte 1.
Zingaretti non può più non disturbare il manovratore, ma deve imporre agli alleati grillini di cambiare registro, di non pensare più d'essere loro e loro soltanto l'anima di un governo che essi paralizzano con una politica basata sui veti e che è deficitaria sulle proposte.
Giuseppe Conte ha detto di non pensare ad un rimpasto, ma è veramente sicuro che, con gli stessi uomini, il governo potrà avere l'auspicato cambio di passo? Non si tratta di offrire la testa di nessuno, ma alcuni dei suoi ministri hanno dimostrato d'essere inadeguati al ruolo nel quale si sono ritrovati, con tanto entusiasmo e pochissima esperienza.
Qui non si tratta di rimpiangere le scuole di partito, che formavano i futuri reggitori della cosa pubblica, ma di una mancanza di preparazione che, i grillini ne sono un esempio quotidiano, alla fine nuoce a tutti.
A cominciare dal Paese.