Chiusi gli Stati generali: un'opportunità o un'occasione persa?
Gli Stati generali si sono chiusi con un paio di meravigliose, splendide, stringenti domande: e ora che si fa? a che cosa sono serviti? Interrogativi che potrebbero essere capziosi, nel senso che, a seconda di chi li pone, potrebbero essere, come fossero un ossimoro, a favore o contro l'iniziativa del presidente Conte.
Di per sé, almeno nell'accezione che ad essi ha voluto dare il premier, gli Stati generali sono stati la base su cui costruire il futuro del Paese e, insieme, volendo proseguire nelle similitudini ingegneristiche, la barriera da erigere per fermare le onde della crisi che si abbattono, squassandole, contro le nostre coste.
Essendosi appena concluse, le decine e decine di riunioni che Conte ha avuto dovrebbero essere ancora in fase di decrittazione, ovvero di studio per trarre da ciascuna di esse gli elementi utili all'elaborazione di una strategia che consenta al nostro demoralizzato Paese di potersi rialzare, di potere ripartire, di tornare bello come prima.
Ma questi sono gli auspici, perché la realtà potrebbe, drammaticamente, essere diversa.
Già il metodo è apparso quantomeno troppo speranzoso, quasi al limite dell'azzardo.
Perché, incontrare decine di delegazioni, centinaia di soggetti che si sentono abilitati ed interloquire, proporre, stigmatizzare, attaccare, rinfacciare (in effetti, al di la della cortina di riservatezza alzata intorno agli Stati generali, si sono colte voci di confronti abbastanza serrati) non è certo il migliore modo per dare forma concreta alla massa inesauribile di sogni sul ''dopo''.
Sentire tutti è certo una forma di democrazia estrema, nel senso che, quando si tratterà di tradurre in proposte, ma soprattutto in atti, si avrà un quadro generale del polso del Paese. Che però potrebbe essere non univoco, nel senso che, a seconda della personalità e della sigla che rappresentava, chi si è seduto di fronte a Conte era portavoce di istanze particolari e non sempre coincidenti. Forse, e lo dico con la massima umiltà, sarebbe stato il caso di incontri meno pletorici, ma più mirati.
Ed invece, dall'altro lato del tavolo, Giuseppe Conte ha visto alternarsi molti interlocutori, in quella che l'opposizione ha definito, in modo abbastanza scontato, una passerella e che invece potrebbe dimostrarsi solo e soltanto un'occasione persa ed una inutile dimostrazione di volere ascoltare tutte le voci del Paese.
Ha un senso sedersi al medesimo tavolo di chi sostiene le ragioni di Tizio e, poi, quelle antitetiche di Caio e fare la stessa faccia davanti a proposte nettamente contrastanti?
Due settimane o giù di lì ad inseguire soluzioni, quando forse il compito di un Governo è quello di proporne di sue e non elaborazioni di quelle di altri.
Il tirare delle somme di cui Giuseppe Conte si è investito è impresa enorme e se i primi segnali saranno confermati (una idea veramente originale quella di dire che si pensa ad una riduzione dell'Iva, argomento che torna ciclicamente alla ribalta) non è che c'è molto da essere ottimisti. Per Conte uscire vittorioso dalla sfida lanciata alla crisi sarebbe una impresa unica ed irripetibile, ma il dubbio è che, al di là della buona volontà, il presidente del Consiglio si muova non tenendo nella giusta considerazione l'architettura della nostra democrazia parlamentare che affida all'esecutivo e non al solo premier le decisioni. E non mi pare che qual che sta accadendo ricada in questa fattispecie.
Non è certo ipotizzando il taglio di questo o il rinvio di quell'altro che si può indurre gli italiani a credere alle parole del presidente del Consiglio, come di qualsiasi altro soggetto investito di pubbliche responsabilità. Ma Giuseppe Conte ci ha abituato ad una interpretazione del suo ruolo in funzione mediatica, dando cioè la massima visibilità agli annunci, senza però fare seguire ad essi gli atti concreti che tutti si aspettano.
Certo, pretendere che risolva i problemi dell'emergenza in quattro e quattr'otto, è come chiedere a Conte di scalare l'Everest a mani nude ed in ciabatte. Ma forse un bagno di sana umiltà, di buona pratica del dialogo con chi lui governa non sarebbe male.