Un documento interno, rivelato in Israele, accredita il premier come sostenitore del riconoscimento di
fattorie-avamposto illegali in Area C. Sullo sfondo, l’escalation della violenza dei
Hilltop Youth e il braccio di ferro con la comunità internazionale.
(Foto: Il premier israeliano Benjamin Netanyahu).
Il documento che agita Gerusalemme
Secondo un documento interno del governo israeliano, reso noto dal sito Ynet e ripreso da altri media israeliani,
il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe sostenuto il riconoscimento di una serie di
avamposti agricoli illegali in Cisgiordania, alcuni dei quali ospitano giovani coloni
radicali legati al movimento degli Hilltop Youth.
Il testo, riassunto come “conclusioni del primo ministro”, nasce da una riunione tenuta il mese scorso per affrontare
la violenza dei coloni estremisti. Al tavolo, oltre a Netanyahu, erano presenti il ministro della Difesa
Israel Katz e il comandante del Comando Centrale dell’esercito israeliano,
il generale Avi Bluth. È il livello politico-militare più alto, quello da cui di solito discendono
le linee guida operative sul terreno.
Nel documento, le fattorie-avamposto vengono descritte come una sorta di “risposta positiva” alle
attività palestinesi in Cisgiordania e come uno strumento necessario per “salvaguardare l’Area C”,
la porzione del territorio sotto pieno controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo. In altre parole:
non un’anomalia da correggere, ma un tassello della strategia di consolidamento della presenza israeliana
sui crinali più contestati della Cisgiordania.
Pur riconoscendo che queste strutture sono illegali anche secondo la legge israeliana,
il premier spingerebbe per un percorso di legalizzazione – un processo che negli ultimi anni
ha già trasformato diversi avamposti “selvaggi” in insediamenti riconosciuti, spesso a posteriori rispetto alla loro nascita.
Che cosa sono le “fattorie-avamposto”
Le fattorie al centro del dossier non sono semplici aziende agricole: sono avamposti di coloni,
spesso costituiti da poche roulotte, recinti e strutture mobili, piazzati su colline strategiche tra villaggi palestinesi.
Nascono senza autorizzazioni formali, ma ricevono comunque – secondo diverse inchieste giornalistiche e rapporti di ong –
protezione militare, infrastrutture e, in alcuni casi, fondi pubblici.
In molti casi questi insediamenti agricoli servono da “base avanzata”: con il pretesto della
pastorizia o della coltivazione, i coloni reclamano porzioni sempre più vaste di terreno,
spesso impedendo ai palestinesi di accedere a terre, pascoli e fonti d’acqua che usavano da decenni.
È una forma di annessione de facto, costruita più con recinti e intimidazioni che con gli accordi diplomatici.
Diverse ricerche indipendenti segnalano che da anni gli avamposti agricoli vengono utilizzati per
allargare il controllo territoriale israeliano ben oltre il perimetro dei grandi insediamenti
ufficialmente riconosciuti. In parallelo, le autorità israeliane rilasciano permessi edilizi in Cisgiordania quasi
esclusivamente per i coloni, mentre per i palestinesi costruire – anche su terra privata – significa esporsi al rischio
di ordini di demolizione e sgomberi.
Area C, il cuore della contesa
L’Area C copre oltre il 60% della Cisgiordania ed è sotto completo controllo israeliano dal punto di
vista amministrativo e di sicurezza. Qui vivono la gran parte dei circa 500.000 coloni israeliani
insediati oltre la Linea Verde, distribuiti in insediamenti ufficiali e in centinaia di avamposti non autorizzati.
Per i palestinesi, invece, l’Area C è cruciale per la continuità territoriale di un eventuale futuro Stato.
Negli ultimi anni, governi israeliani di diverso colore hanno approvato nuovi piani di espansione,
infrastrutture dedicate e procedure legali che di fatto consolidano un’annessione strisciante.
La legalizzazione di decine di avamposti, e ora il possibile riconoscimento delle fattorie agricole illegali, si inserisce
in questo quadro più ampio: ridisegnare la mappa della Cisgiordania in modo irreversibile.
Per la leadership palestinese, ma anche per buona parte della diplomazia europea, questa strategia
rende sempre più impraticabile la soluzione dei “due Stati”, perché spezzetta il territorio
palestinese in isole separate da insediamenti, strade a uso dei coloni e zone militari.
Chi sono gli Hilltop Youth
Il nome Hilltop Youth – letteralmente “giovani delle colline” – indica un movimento di giovani coloni
ultranazionalisti che dagli anni ’90 occupano crinali e terre in Cisgiordania fondando avamposti senza alcuna base legale.
Sono un gruppo fluido, senza una vera struttura formale, ma con una chiara identità ideologica:
religioso-nazionalista, suprematista e radicalmente anti-palestinese.
Nel corso degli anni membri legati al movimento sono stati accusati di incendi dolosi,
aggressioni, vandalismo contro scuole e moschee palestinesi, distruzione di uliveti secolari, furti di bestiame
e attacchi notturni a villaggi e comunità beduine. Alcuni tra i più gravi episodi di violenza dei coloni, come incendi
mortali di abitazioni palestinesi, sono stati ricondotti a militanti vicini a questo ambiente.
La comunità internazionale ha iniziato a reagire: Stati Uniti ed Unione europea hanno introdotto
sanzioni mirate nei confronti del gruppo e di alcuni dei suoi leader, qualificando gli Hilltop Youth come
organizzazione estremista violenta. È un cambio di passo significativo, perché sposta una parte
dell’attenzione dalla sola responsabilità individuale a quella politico-ideologica.
Proprio per questo colpisce che un documento governativo israeliano associ la riduzione della violenza di questi gruppi
non a misure repressive più dure, ma principalmente a strumenti educativi, pur chiedendo nel contempo
il riconoscimento di alcune delle strutture da cui quella violenza spesso parte.
Educazione contro la violenza, ma via libera agli avamposti
Nel documento attribuito a Netanyahu, il premier definisce come obiettivo quello di
“togliere il maggior numero possibile di giovani ebrei dal ciclo della violenza” in
Giudea e Samaria (il termine ufficiale usato dal governo per la Cisgiordania) attraverso “strumenti educativi”.
Una formula che riconosce il problema, ma ne limita la cura alla sfera sociale e pedagogica.
Il punto controverso è la combinazione tra questo approccio “soft” e la pressione per
legalizzare le fattorie-avamposto, alcune delle quali sono proprio epicentri di aggressioni
contro palestinesi e attivisti. Non è un dettaglio tecnico: la legalizzazione significa più risorse, più sicurezza,
più infrastrutture, quindi una maggiore permanenza sul territorio.
Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, ministeri chiave come quello delle Finanze e quello
per gli Insediamenti e i “Progetti nazionali” avrebbero già destinato decine di milioni di shekel
a queste fattorie, attraverso fondi per la sicurezza locale e strutture abitative mobili. Di fatto, una parte dello Stato
si comporta da anni come se questi avamposti fossero già pienamente legittimi.
La cornice: violenza dei coloni in forte crescita
Il dossier sulle fattorie esplode in un momento di forte aumento della violenza dei coloni
in Cisgiordania. Centri di ricerca e organizzazioni indipendenti registrano, dal 2023 in poi, un’impennata di
attacchi contro civili palestinesi: aggressioni fisiche, incursioni nei villaggi, incendi di case e magazzini,
distruzione di campi e infrastrutture agricole, blocchi stradali armati.
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la guerra a Gaza, il West Bank è diventato un vero
focolaio parallelo: le statistiche mostrano un numero record di episodi violenti che coinvolgono coloni,
spesso alla presenza – o con la tolleranza – delle forze di sicurezza israeliane. In alcuni distretti, come le zone di
Nablus, Hebron e Ramallah, la violenza dei coloni è ormai quotidiana e ha provocato lo sfollamento di intere comunità palestinesi e beduine.
Il quadro che emerge è quello di una pressione sistematica per spingere i palestinesi ad abbandonare
le aree rurali più esposte, in particolare nell’Area C, mentre gli avamposti – inclusi quelli agricoli – consolidano
la propria presenza. In questo contesto, il messaggio che arriva dal documento attribuito a Netanyahu rischia di essere
interpretato come un via libera politico alla strategia dei fatti compiuti sul terreno.
Le reazioni internazionali e il nodo del diritto
La questione delle fattorie-avamposto illegali non è solo un tema interno israeliano.
Per la comunità internazionale, tutti gli insediamenti civili israeliani nei territori occupati – compresi gli avamposti
che Israele considera “solo” illegali ai sensi della propria legge – violano il diritto internazionale umanitario,
in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra.
L’Unione europea, varie capitali europee e più volte anche Washington hanno chiesto a Israele di
fermare l’espansione degli insediamenti e di contrastare con decisione la violenza dei coloni.
Negli ultimi mesi sono state introdotte sanzioni individuali contro coloni e gruppi ritenuti responsabili di
aggressioni in Cisgiordania, con il divieto d’ingresso, il congelamento di eventuali beni e una crescente stigmatizzazione pubblica.
In questo scenario, l’idea di portare gli avamposti agricoli nel perimetro della legalità israeliana viene letta da
molte cancellerie come un passo ulteriore verso l’annessione dell’Area C. Una linea che contrasta
frontalmente con l’idea – sempre più fragile, ma formalmente ancora sostenuta da gran parte dell’Occidente – di una
futura soluzione a due Stati.
La scommessa politica di Netanyahu
Per Netanyahu, stretto fra un’opinione pubblica israeliana traumatizzata dalla guerra, la pressione della destra
radicale nella coalizione e le critiche internazionali, la partita degli avamposti è anche una
scommessa politica interna. Riconoscere le fattorie significa parlare alla base più ideologica
del fronte dei coloni e ai partiti che lo sostengono in Knesset, a cominciare dai ministri ultranazionalisti
che spingono apertamente per l’annessione permanente della Cisgiordania.
Sul piano esterno, però, ogni passo in questa direzione complica i rapporti con i partner occidentali,
esponendo Israele a ulteriori condanne diplomatiche, possibili misure economiche e procedimenti giudiziari
in sedi internazionali. In parallelo, rischia di alimentare ancora di più la spirale di tensione con la popolazione
palestinese in Cisgiordania, già segnata da restrizioni di movimento, arresti di massa e crescente impoverimento.
La domanda di fondo resta aperta: si può davvero “educare” la violenza dei coloni e, nello stesso tempo,
premiare con la legalizzazione le strutture che ne sono spesso il punto di partenza? Il documento
emerso dalle stanze del governo israeliano sembra indicare che, almeno per ora, la risposta di Netanyahu è sì.