Arriva al Centro Culturale Candiani di Mestre "Munch. La rivoluzione espressionista", ma parlarne come di una “retrospettiva” è un modo gentile per non nominare ciò che realmente sta tornando: l’artista che per primo ha dato forma al lato oscuro della modernità. Mentre l’Europa celebrava progresso e ordine, Munch intuì l’altra faccia: lo smarrimento, l’ansia, la frattura interiore.
Non raccontò la sua epoca. Anticipò la nostra.
Munch torna in Italia. E con lui l’inquietudine che ci riguarda ancora
Chi guarda Munch senza fretta capisce che il suo grido non è individuale: è storico. È il punto in cui l’Ottocento si spacca e il Novecento entra, senza chiedere permesso, con tutta la sua fragilità. La pittura abbandona l’illusione della superficie tranquilla: passa dall’esterno all’interno. Dal paesaggio alla psiche. L’io non è più saldo. È incrinato, instabile, sdoppiato, quasi sfinito.
È qui che nasce la sua attualità permanente.
Il Novecento comincia dove finisce l’euforia
Le sette sezioni della mostra non sono solo il percorso di un artista: sono il viaggio di un continente verso la propria inquietudine. Prima le radici naturaliste, poi l’urto mitteleuropeo, quindi le Secessioni. È lì che Munch non viene semplicemente “capito”, ma riconosciuto: non porta decorazione, ma diagnosi. L’arte smette di celebrare — comincia a interrogare.
La ferita che non si rimargina
Se oggi Munch ci parla ancora non è per fedeltà museale ma perché la sua ferita non si è mai chiusa. È la stessa che ritroviamo nell’Europa stanca e ansiosa del nostro tempo: economie in affanno, società smarrite, identità in cerca di un centro. Quando l’ottimismo storico vacilla, Munch torna sempre comprensibile. Attraversa il presente come un esame di coscienza.
L’eco che arriva fino a noi
Il dialogo con gli espressionisti non fu imitazione, fu contagio: Ernst Ludwig Kirchner, Heckel, poi Guttuso, fino ad Abramović. Da lui non ereditarono uno stile: ereditarono il coraggio di mostrare il dolore che non si dice. È questo che fa di Munch un contemporaneo: quando guardiamo i suoi volti deformati non stiamo osservando una tecnica, ma una confessione collettiva.
L’arte che restituisce il peso dell’umano
In un’epoca che pretende leggerezza, Munch ci ricorda che l’interiorità ha peso. Non tutto è superficie. Non tutto è gesto rapido. La pittura – paradossalmente – mostra ciò che la psicologia avrebbe nominato solo anni dopo: la fatica di stare al mondo. Il disagio come lingua comune. Il grido come nervo condiviso.
Là dove l’Europa di oggi teme la complessità, Munch la guarda senza distogliere lo sguardo.
Un ritorno che interroga noi
Nel cuore di Mestre, dunque, non arriva solo un grande artista. Arriva una domanda. Che cosa resta dell’uomo quando perde l’armatura dell’ottimismo? Chi siamo quando l’immagine pubblica non basta più a contenerci? La mostra non offre risposta: ricorda la necessità di non censurare la nostra parte inquieta.
Perché la malattia che Munch seppe nominare non è mai davvero scomparsa. È solo tornata dentro di noi, più silenziosa, più civile, più educata. Ma non meno viva.
Mestre espone Munch.
Ma, come sempre, è Munch che espone noi.