Medio Oriente: la morte di Sinwar non avvicina la pace

- di: Redazione
 
La fine di Yahya Sinwar, morto a Rafah, non nel corso di una operazione mirata, ma in un ''normale'' scontro a fuoco tra miliziani di Hamas e soldati d'Israele, seppure segna un momento significativo del conflitto in Medio Oriente, certo non determina un decisivo passo in avanti verso un cessate il fuoco, una tregua e, addirittura, la fine della guerra.
Sinwar, per Hamas, era ormai un simbolo, per la sua storia personale (ha trascorso molti anni in cercare, da cui uscì nello scambio per la liberazione del soldato Gilad Shalit, catturato da Hamas nel corso di una incursione), ma anche per il fatto di incarnare il modello di una ribellione a Israele senza margini di trattativa.

Medio Oriente: la morte di Sinwar non avvicina la pace

Hamas, peraltro, senza di lui, non sarebbe diventata la macchina bellica che è stata sino ad un anno fa, quando attaccò Israele facendo strage di civili e rastrellando centinaia di ostaggi.
Per paradossale che possa apparire, Yahya Sinwar, capo militare del movimento e punto di riferimento ed esempio dei giovani guerriglieri di Hamas, è morto, per così dire, casualmente e per mano di giovani coscritti, non di elementi delle unità di élite dell'IDF, quelle che, da un anno gli davano una caccia spietata, calandosi nei tunnel nella speranza di catturare ''il macellaio''.

Soprannome che Sinwar si era ''meritato'' per la spietata pulizia che, nella Striscia, colpì centinaia di presunti collaborazionisti, spesso giustiziati in piazza, senza nemmeno un simulacro di processo.
Le ultime immagini di Sinwar da vivo - almeno quelle che circolano in rete e che vengono da fonti militari israeliane - lo mostrano tra le macerie di un palazzo colpito dal proiettile di un carrarmato Merkava, seduto su una poltrona impolverata, con la kefiah a coprirgli il volto. Le altre immagini sono quelle che ne immortalano il cadavere, attorniato da giovani soldati in armi, che forse non si rendono nemmeno contro di avere scritto la storia recente di Israele e anche di Hamas.

"Oggi abbiamo chiarito ancora una volta cosa succede a coloro che ci danneggiano - ha detto rivolto al Paese, elogiando i suoi soldati, il primo ministro Benjamin Netanyahu - Oggi abbiamo mostrato ancora una volta al mondo la vittoria del bene sul male. "Ma la guerra, miei cari, non è ancora finita. È difficile e ci sta costando caro. Ci attendono ancora grandi sfide. Abbiamo bisogno di resistenza, unità, coraggio e fermezza. Insieme combatteremo e, con l'aiuto di Dio, insieme vinceremo".

Al di là delle frasi retoriche e della celebrazione di un successo perseguito da anni, Netanyahu ha detto chiaramente che la morte di Yahya Sinwar è solo un capitolo del cammino che ''deve'' portare alla vittoria di Israele. E questo è un indicatore di come il primo ministro israeliano considera il lavoro ancora da finire, anche se questo significa altre morti, distruzioni, dolore.
Perché gli obiettivi primari - riportare a casa gli ostaggi ancora in mano ai miliziani e rendere inefficace la macchina militare di Hamas - sono ancora lontani. E questo rende la vittoria - cioè l'uccisione del capo di Hamas - parziale, quasi incompleta, pur servendo a Netanyahu per rafforzare politicamente la sua posizione e, contemporaneamente, dargli carta bianca nella guerra. Con tutto quello che, in termini ''pratici'', questo comporta, anche per le famiglie degli ostaggi che, anche ieri, poco dopo l'annuncio della morte del capo di Hamas, sono tornate in piazza per chiedere un passo concreto per la liberazione dei loro congiunti.

Per tutte, le parole di Einav Zangauker, madre di un ostaggio, Matan, che rivolgendosi al primo ministro ha detto: "Netanyahu, non seppellire gli ostaggi. Vai ora dai mediatori e dal pubblico e proponi una nuova iniziativa israeliana. Per il mio Matan e il resto degli ostaggi nei tunnel, il tempo è scaduto. Avete le foto della vittoria. Ora portate un accordo! Se Netanyahu non sfrutta questo momento e non si alza ora per presentare una nuova iniziativa israeliana, anche a costo di porre fine alla guerra, significherà che ha deciso di abbandonare gli ostaggi nel tentativo di prolungare la guerra e rafforzare il suo governo. Non ci arrenderemo finché tutti non saranno tornati."
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