Una “celebrazione” che diventa tragedia: il cielo che uccide, la verità che sanguina.
(Foto: bambini giocano in strada a Port-au-Prince ad Haiti).
Nel quartiere Simon Pelé di Cité Soleil a Port-au-Prince quello che avrebbe dovuto essere un momento di festa per bambini si è trasformato in un massacro. Otto piccoli hanno perso la vita e altri sei sono rimasti gravemente feriti, vittime di un attacco con droni “kamikaze”. L’episodio ha scosso il Paese e rilanciato interrogativi pesanti su legalità, responsabilità politica e declino dello Stato ad Haiti.
Che cos’è successo e cosa c’è dietro
Secondo ricostruzioni concordanti, l’attacco sarebbe stato condotto con due droni carichi di esplosivo, lanciati nell’area in cui Albert Steevenson, alias Djouma, presunto capo di una banda che controlla ampie zone della capitale, stava celebrando il suo compleanno distribuendo regali ai bambini del quartiere. Le vittime includono bambini, civili e presunti membri armati della gang, mentre Djouma è rimasto illeso. Il dato alimenta dubbi sul reale obiettivo: colpire il leader o terrorizzare chiunque si trovasse nei paraggi.
Il contesto: Haiti invasa dalle bande
Cité Soleil è da anni territorio conteso, dove coalizioni di gang esercitano un controllo di fatto su quartieri interi. La capitale vive una crisi di sicurezza senza precedenti, con istituzioni fragili e capacità statali erose. In questo vuoto, si sono moltiplicate operazioni “speciali” per riprendere il controllo, incluso il ricorso a droni esplosivi e a forme di supporto di sicurezza privata. Ma l’uso di armamenti letali in aree urbane densamente popolate apre una questione legale di primo piano: Haiti non è formalmente in guerra e ogni intervento deve rispettare i principi di necessità, proporzionalità e distinzione.
Reazioni, responsabilità e silenzi
La tragedia ha scatenato condanne e richieste di trasparenza. Mancano però comunicazioni ufficiali chiare: si parla di indagini in corso, mentre famiglie e comunità chiedono nomi, catene di comando e assunzione di responsabilità. “Chi risponderà dell’attacco — il primo ministro, il consiglio presidenziale transitorio, le compagnie di sicurezza private?”, ha chiesto pubblicamente Romain Le Cour, osservatore di lungo corso delle dinamiche criminali haitiane.
Dall’altro fronte, Jimmy Chérizier, alias “Barbecue”, figura simbolo della coalizione di bande, ha promesso rappresaglie, sostenendo che a essere colpiti siano stati civili inermi. “Voi chiamate ‘sicurezza’ ciò che per noi è strage”, ha dichiarato, alimentando ulteriormente una spirale di accuse e minacce.
Implicazioni per Haiti e per il diritto internazionale
L’episodio segna una linea rossa: normalizzare l’impiego di droni letali in contesti urbani fragili rischia di diventare un precedente pericoloso. Le conseguenze possibili sono molteplici: radicalizzazione del conflitto, perdita di legittimità delle istituzioni, ulteriore sfiducia verso lo Stato di diritto. Senza indagini indipendenti e pubbliche, il confine tra operazioni di sicurezza e omicidi extragiudiziali si dissolve.
Qualche dato utile
Negli ultimi mesi si è registrata un’impennata di vittime legate alle operazioni con droni e un aumento del reclutamento di minorenni da parte delle bande. Gli sfollati interni superano il milione e mezzo, con comunità intere costrette a lasciare le proprie case. Il prezzo umano si misura in vite spezzate e quartieri che faticano a rialzarsi.
Tra veleno e promessa
Questo massacro non è una cronaca isolata: è un monito. Quando uno Stato — o chi agisce in suo nome — impiega la forza senza trasparenza e colpisce i più indifesi, si spezza un patto morale. Non basta invocare l’emergenza o la lotta alle gang: servono indagini credibili, responsabilità chiare e una strategia di sicurezza che non trasformi le città in zone di guerra. Se non c’è giustizia, rimane solo vendetta — e in un contesto già lacerato, la sete di riscatto può alimentare l’orrore che l’ha generata.