Israele starebbe elaborando piani concreti per una possibile occupazione militare e amministrazione diretta della Striscia di Gaza, a vent’anni dal ritiro unilaterale operato nel 2005. A rivelarlo è un’inchiesta del Financial Times, che cita fonti riservate all’interno dell’apparato governativo israeliano. Un alto funzionario, rimasto anonimo, ha dichiarato al quotidiano britannico: “La precedente amministrazione voleva che ponessimo fine alla guerra. Trump vuole che la vinciamo”.
Israele valuta piani per occupare e governare Gaza: "Con Trump, cambiano gli equilibri internazionali"
Parole che segnano un cambiamento radicale nella politica regionale israeliana e, soprattutto, nei rapporti con Washington. La nuova amministrazione statunitense, tornata nelle mani del repubblicano Donald Trump, ha ridefinito l’approccio nei confronti del conflitto israelo-palestinese, spostandosi da una linea diplomatica più cauta verso un sostegno netto e diretto all'azione militare israeliana.
Il piano sul tavolo
Secondo il Financial Times, il governo Netanyahu starebbe valutando diverse opzioni per il "day after" di Gaza, tra cui la possibilità di un’amministrazione militare israeliana a tempo indefinito, con la costruzione di un’infrastruttura di controllo civile e di sicurezza. Il piano includerebbe il dispiegamento di truppe, la gestione dei servizi essenziali e una supervisione politica diretta dell’intera Striscia.
Fonti militari avrebbero già iniziato a mappare il territorio in previsione di una possibile stabilizzazione attraverso presidi militari permanenti, sostenuti anche da forze speciali e apparati di intelligence. La priorità, secondo quanto trapela, sarebbe impedire la rinascita di Hamas e prevenire l’ingresso di gruppi jihadisti transnazionali.
Una svolta ideologica e geopolitica
La prospettiva di un’occupazione riporta indietro di due decenni le lancette della storia. Era il 2005 quando Israele, sotto il governo di Ariel Sharon, abbandonava Gaza in modo unilaterale, smantellando insediamenti e lasciando il controllo al governo dell’Autorità Palestinese. Ma il vuoto istituzionale venne presto colmato da Hamas, che vinse le elezioni del 2006 e assunse il potere con la forza nel 2007, segnando l’inizio di una fase di costante tensione e conflitto.
Ora, con la nuova amministrazione statunitense favorevole a una politica di forza e di "vittoria totale", Israele si sente legittimato a ripensare la sua strategia. “C’è un cambiamento radicale nel clima internazionale. Trump ci offre uno spazio di manovra che prima non avevamo”, ha affermato un altro funzionario israeliano sempre al FT.
Le reazioni e i rischi
L’ipotesi di una nuova occupazione di Gaza è destinata a suscitare reazioni contrastanti. La comunità internazionale, in particolare l’Unione Europea e alcuni Stati arabi moderati, hanno già espresso preoccupazione per il rischio di un’escalation duratura, con ricadute umanitarie devastanti per la popolazione civile. Le Nazioni Unite hanno avvertito che una simile mossa potrebbe violare il diritto internazionale, aggravare la crisi e compromettere qualsiasi possibilità di soluzione a due Stati.
Anche all’interno di Israele, non tutti appoggiano questa linea. Alcuni analisti avvertono che un ritorno diretto nella Striscia potrebbe rivelarsi un pantano militare e politico, con costi altissimi in termini di vite, risorse e immagine.
E il futuro di Gaza?
Mentre le diplomazie osservano con crescente inquietudine, a Gaza si continua a vivere sotto il peso di bombardamenti, carenze di beni essenziali e un numero di sfollati in costante aumento. In questo contesto, la prospettiva di un ritorno dell’occupazione israeliana viene vista dalla popolazione locale con timore, ma anche con un senso di smarrimento: in un territorio già devastato, le alternative sembrano sempre più ridotte.
La linea dura di Tel Aviv potrebbe rivelarsi il preludio a una fase ancora più aspra del conflitto. Con una potenza mondiale come gli Stati Uniti nuovamente schierata senza ambiguità al fianco di Israele, le opzioni diplomatiche rischiano di ridursi drasticamente. Ma una domanda rimane aperta: può davvero una guerra essere “vinta” con l’occupazione di un territorio già martoriato? E soprattutto, a quale prezzo?