Giornata mondiale del gatto: viaggio semiserio nel misterioso mondo del più affascinante animale domestico… che domestico non è
- di: Barbara Leone
In origine fu il gatto soriano, consacrato alla Vergine Maria perché, secondo la leggenda, con la sua pelliccia avrebbe contribuito a scaldare il Bambinello Gesù. Ma si trattò, appunto, di una leggenda presto dimenticata quando l’equazione gatto-donna divenne teorema d’ingovernabilità e i Padri della Chiesa compresero che agli occhi dei gatti e delle donne tutto appartiene… ai gatti ed alle donne. Curioso, impertinente, misterioso e sensuale quest’animale domestico, che domestico non è, viene celebrato oggi attraverso la Giornata mondiale del gatto. Che non a caso è stata istituita a febbraio, il mese dei gatti. E delle streghe. Per di più nel giorno 17, a dispetto d’ogni stupida, e dannosissima, superstizione. Tenero e furbo sua maestà il gatto, viene da lontano. E più precisamente dall’Egitto dei Faraoni, dove era venerato come una divinità: la dea Baster raffigurata, e non a caso, come una formosa donna con la testa da gatta e con in mano il sistro, strumento sacro. Dunque donne, gatto e musica: che altro si voleva di più? Così come l’animo delle donne, il gatto non poteva essere posseduto dagli uomini, ma veniva ospitato nelle case nelle ore e nei momenti in cui decideva di rientrare.
Giornata mondiale del gatto: viaggio semiserio nel misterioso mondo del più affascinante animale domestico… che domestico non è
Di notte il gatto egizio sonnecchiava nei granai del Faraoni, proteggeva dai topi i sili pubblici e chi si azzardava a molestarlo o, peggio, a ucciderlo, rischiava la condanna a morte. Grande onore a quest’animale indecifrabile e inafferrabile, anche con onoranze postume perché quando il gatto moriva veniva imbalsamato e deposto nel mausoleo di famiglia. Dovevano arrivare prima i Tolomei, di origine macedone, e poi i Romani perché finisse la cuccagna per i gatti egiziani. L’ultima gatta regina fu infatti quella di Cleopatra, che la portò con sé quando sposò Cesare. Ma i Romani non amavano i gatti, affascinanti e sornioni. Nella Res Publica capitolina, il cavallo e il canis fidelis erano gli animali da trattare con riguardo. Il cane romano era grosso e cattivo (il suo erede naturale è l’attuale mastino napoletano). Mai romano, il gatto fu però greco e non a caso nella mitologia ellenica si dice che lo creò una donna: la dea Ecate, protettrice dei gatti… e delle streghe. Quant’è vero che gli accoppiamenti stabili non sono mai casuali! Le rituali litanie che intercorrono tra le donne e i gatti non potevano trovare spazi e spiragli nel buio e arcigno Medioevo, ossessionato dalla vicina fine del mondo e dalle dispute teologiche. Furono quelli secoli bui anche per i gatti. Il nobile animale scomparve dalla circolazione e dai focolari domestici. E non si riaffacciò alla ribalta nemmeno durante il Rinascimento, non interessò i grandi Maestri del pennello e dello scalpello e finì insomma nel dimenticatoio. Solo un genio si ricordò di lui. Leonardo da Vinci definì il gatto “un piccolo capolavoro”. A lui dedicò studi e disegni raffigurandolo nei suoi atteggiamenti abituali, di lotta, di gioco, di caccia. Contro ogni moda anche il vanitoso damerino Petrarca era un patito di gatti.
Tant’è vero che in punto di morte chiamò a sé i familiari e disse: “Voglio che il mio gatto mi segua per l’eternità. Non abbiate timore a sopprimerlo, ma poi imbalsamatelo e ponete il suo corpo in una nicchia che sovrasterà la mia tomba e sulla nicchia scrivete che nel cuore del poeta fu secondo solo a Laura”. Come dicono i cinesi, il gatto conosce la discrezione e la meditazione. D’intelligenza sopraffina, sopravvisse così ai tormentosi secoli oscuri della persecuzione, quando i predicatori quaresimalisti lo indicavano alle plebi analfabete come un essere diabolico e malvagio, simbolo del peccato e della lussuria. “Dio vi guardi dal gatto quando fa le fusa”, tuonavano dai pulpiti quegli austeri savonarola perché, dicevano, “con quel continuo, accattivante rumore, il diabolico animale invita le donne alla fornicazione e voi, con lei, al peccato della carne”. Non avevano capito, poveri frustrati, che donne e gatti ne sanno una più del diavolo. I micioni si rintanarono in campagna e lì attesero che per loro tornasse la buona stagione. Che fu quella delle saghe, dei racconti popolari e delle favole per i bambini di tutto il mondo (basti pensare al “Gatto con gli stivali”, furbo e opportunista). Solo verso la fine del Cinquecento, quando nella pittura s’imposero i Manieristi, il gatto fu interamente riabilitato e reintrodotto anche nelle case di città dove le dame, accarezzando il loro mantello, si fecero ritrarre nel languido e allusivo atteggiamento di chi è pronto a donarsi in nome di ideali di bellezza raffinata. “La donna sciagurata tema la zingara e il gatto”, dice un proverbio spagnolo. E dunque nel popolo minuto il gatto rimase quel ladro beffardo che era sempre stato e non aveva ritegno a esserlo. Perché il gatto non ha padroni, non ha morale, è libero, strafottente, opportunista e cinico. E proprio per queste sue magagne da malandrino perpetuo, quest’animale nobile e fiero è stato sempre amato dalle donne, dai letterati, dagli scapestrati e dagli scrittori raffinati e bohemien di ogni risma, età e condizione.
Una su tutte Colette, che in realtà si chiamava Sidonie Gabrielle, e stupiva la Parigi brillante e leggera de fin de siècle perché si presentava nei salotti à la page vestita da uomo con frac e cilindro. Sapida, perché ostentava quel suo accento campagnolo grasso e succoso, l’accento borgognone, era una donna eccentrica e raffinata. Giovane, esuberante e seducente, dal fascino aspro e un po’ perverso aveva modi e pose stravaganti. Eppure questa donna talentuosa e spregiudicata diventava tenera e fragile quando le si parlava di gatti. Il gatto era il centro della sua visione del suo mondo, legato alla natura e alla campagna. Il romanzo che la rese celebre, “La chatte”, è un inno alla femminilità trasposta nelle movenze, le imprese, le ribalderie della sua gatta. La gatta per Colette divenne il simbolo dell’emancipazione femminile, della conquista della libertà, dell’affrancamento dalla tutela maschile (prima il padre, poi il marito), dell’esibizione di valori fino a quel momento negletti o disprezzati. Era l’inizio della rivoluzione del sesso debole. “Le donne sono come i gatti. Le si possono costringere a fare solo ciò che vogliono”, diceva Colette e proprio a quell’epoca le prime suffragette inglesi innalzarono la figura del gatto a simbolo dell’emancipazione femminile. “Stando col gatto – scrisse Colette – si rischia solo di arricchirsi” e questa frase andò tanto a genio finanche a quello snobbone di Charles Baudelaire. Il celebre autore dei “Fiori del Male”, poeta maledetto, uso a dividere la sua vita tra le stravaganze e l’assenzio, si degnò di prendere penna e carta e volle dedicare all’amica e rivale questa poesia: “Vieni mio bel gatto / sul mio cuore innamorato / trattieni le unghie della tua zampa / e lascia ch’io mi perda nei tuoi begl’occhi / misti di metallo e d’agata”. Si era scatenata la moda, e i letterati francesi, sempre eccessivi e malati di grandeur stabilirono, con grande enfasi, che la nostra civiltà non è riuscita a corrompere l’indecifrabile animale perché lui ha già la sua. Amare un gatto, disse Paul Verlaine, altro poeta maledetto, è facilissimo, oppure impossibile. Se ami un gatto, lui ama te. Se lo disprezzi gli sarai indifferente. Il gatto non sprecherà certo la sua energia per opporsi a qualcuno. “Femme et chatte” è la lirica in cui il poeta consegnò questi supremi pensieri. Théophile Gautier, nel libro “Il Serraglio Privato”, sostenne che non c’è da meravigliarsi se i gatti, in cuor loro, nutrono un bel complesso di superiorità, se è vero che in Egitto erano adorati come divinità. Fateci caso - osservava Gautier -, i cani ti guardano dal basso all’alto, i gatti dall’alto al basso. Solo i maiali ti guardano da eguali. Ma fu solo quando si scoprirono le essenziali bellezze delle pitture africane e le sublimi teorie dei pensatori orientali che si applicò il Taoismo ai gatti. Chi è più saggio del gatto? Esistono cani, ma non gatti nevrotici. I felini sono naturalmente equilibrati e naturalmente sereni. Ci mancavano solo i pittori, e puntuali giunsero gli Impressionisti. Édouard Manet diceva che il gatto è un “animale fluido”, e perciò è difficile fermarlo sulla tela e che lui aveva durato un’improba fatica a raffigurare un gatto ai piedi di Madame Olympia per simboleggiare la complessa sensualità della signora. In verità da tanto tempo i giapponesi dipingevano un gatto ai piedi delle geishe. Per Auguste Renoir il gatto era giocoso e allegro e con l’intento di rendere la beata giovinezza delle jeunes filles en fleur dipinse due gatti birboni in due dipinti sullo stesso tema, “Ragazza con gatto” e “Ragazza che dorme col gatto”.
Ma l’invenzione geniale l’ebbe Victor Hugo: l’autore de “I Miserabili” fece costruire un vero e proprio trono di legno dorato, con tanto di cuscini rossi, e su quel regale scranno istallò il suo amatissimo gatto. Nemmeno mia mamma, che è una gattara illustre, ha mai concepito simili, ardimentose spavalderie. Eppure è arrivata a far girare per casa dodici gatti stanziali. Senza contare i plotoni di randagi sfamati ed accuditi all’inverosimile. Bisogna pur dire che i gatti randagi, zingari pelosi della strada, possiedono un fascino ancor più fiero che s’incarna in quell’aria da ladro impenitente e saltimbanco cialtrone. Provate a prendere un gatto di strada: ne uscirete totalmente sconfitti, oltreché ineluttabilmente graffiati. Solo quel furbone di Picasso ci riuscì: pensate che un giorno, in un cortile di Parigi, vide un gattone maschio con la coda mozza e pieno di cicatrici, un gatto da combattimento, un guerriero spietato, padrone assoluto delle voglie delle gattine del circondario, il terrore dei concorrenti ai fuggevoli accoppiamenti da strada. Il pittore di Guernica ne rimase affascinato, lo fotografò e lo dipinse col pelo arruffato, nell’atto di correre come un diavolo e con la grinta di un pirata che va all’arrembaggio. Se lo portò a casa e, non per niente, lo chiamò Morgan. Io, il mio, l’ho chiamato Alfonso. O meglio: Alfonsogattoilpoeta. Perché ha da sempre quell’aria trasognata e hippy tipica dei poeti che la sanno lunga. Lui, dall’alto dei suoi venti e fischia anni, la sa lunga eccome. Da buon ex gatto randagio si gode ogni attimo della vita non facendo assolutamente nulla. Mica come i cani, che fessi come sono ti scodinzolano contenti quando gli insegni a tirare la slitta o a portare il giornale. Lui, il gatto, il giornale se lo legge guardando fuori dalla finestra gli uccellini che devono faticare per procacciarsi il cibo. Sornione e strafottente se ne sta sdraiato al sole, persuaso che tutto gli sia semplicemente dovuto. Non attende niente, e non vuole niente da nessuno. Perché il vero gatto non dipende da nessuno, si basta e basta. Forse, più d’ogni ode o artistica raffigurazione, lo descrive bene un’antica leggenda orientale che narra di un gatto che girovagando tra le foreste indiane si ritrovò d’un tratto in una radura dove s’erano ammucchiati animali di tutte le specie. Leoni, tigri, serpenti… e tutti si lamentavano e piangevano. “Che è successo”, chiese il gatto. “Ma come, non lo sai? Buddha, l’Illuminato, sta morendo e noi siamo tristi”. Il gatto si avvicinò al moribondo, lo guardò senza versare una lacrima mentre con la coda dell’occhio teneva sotto controllo un topolino. Un attimo dopo il topo era in bocca al gatto. “Ma ti rendi conto di quel che hai fatto, ti rendi conto che il Buddha sta morendo?”, lo redarguì un discepolo. Il gatto lo guardò con aria tracotante e impertinente: “Ah sì, muore? E chissenefrega!”.