Centinaia di tank israeliani si ammassano attorno a Gaza City. Non è un semplice esercizio di forza, ma la fase preparatoria di un’operazione che mira a disarticolare la struttura politico-militare di Hamas. L’obiettivo è il controllo del cuore della Striscia, nonché la neutralizzazione del suo capitale simbolico. La concentrazione di mezzi corazzati suggerisce la volontà di Tel Aviv di chiudere la partita in modo definitivo, accettando i costi umanitari e diplomatici dell’assalto.
Gaza, il banco di prova della presidenza Trump: Israele tra assedio e Qatar
Da un anno alla Casa Bianca, Donald Trump persegue una linea che intreccia realismo e discontinuità. Il presidente non rinuncia a ribadire il sostegno a Israele, ma lancia un messaggio inequivocabile: “Il Qatar è un grande alleato degli Stati Uniti”. L’avvertimento a Netanyahu non riguarda la fedeltà americana, bensì la necessità di preservare un partner vitale per la sicurezza energetica globale, la logistica militare e soprattutto per i contatti con Hamas. In questo senso, Trump non difende l’emirato per filantropia, ma per logica di interesse nazionale: senza Doha, Washington perderebbe uno snodo decisivo per il contenimento regionale.
Il Qatar come mediatore necessario
Il presidente chiede apertamente all’emirato di “fare qualcosa con Hamas”. Doha, sede di basi militari americane e hub finanziario, è tra i pochi attori capaci di dialogare con il movimento islamista. Per la Casa Bianca, ciò rappresenta una leva da utilizzare non per risolvere il conflitto, ma per gestirlo. Trump ragiona in termini di rapporti di forza: Hamas non può essere eliminato, ma contenuto attraverso canali politici e finanziari che passano necessariamente per il Qatar.
Il vertice islamico e la frattura della narrazione occidentale
Mentre i carri armati si posizionano, a Doha si riuniscono i leader arabi e islamici. L’appello è netto: sanzionare Israele per i suoi “crimini”. Non è un proclama ideologico, ma la traduzione politica di una frustrazione diffusa: la percezione che l’Occidente applichi due pesi e due misure, colpendo con durezza Mosca ma esentando Tel Aviv. Questa frattura discorsiva rischia di trasformarsi in frattura strategica, spingendo paesi del Golfo e potenze regionali a esplorare nuove convergenze con la Cina e con la Russia.
Netanyahu, Washington e l’opinione pubblica americana
La visita di Netanyahu con il senatore Marco Rubio al Muro del Pianto ha un valore simbolico preciso: consolidare il rapporto privilegiato con la destra statunitense. In un’America polarizzata, Israele non può più contare su un sostegno bipartisan automatico. Trump, pur amico dello Stato ebraico, ha chiaro che l’eccesso di identificazione con Tel Aviv rischia di complicare la sua proiezione globale. Da qui il bilanciamento con il Qatar, presentato come alleato imprescindibile.
Il rischio di trascinamento regionale
La dinamica in atto a Gaza non si esaurisce nei confini della Striscia. L’attacco israeliano, se lanciato, potrebbe incendiare il Libano meridionale e costringere l’Egitto a un ruolo più esposto. Sullo sfondo, Iran e Turchia osservano con attenzione, pronti a capitalizzare sul risentimento arabo. La presidenza Trump si trova dunque di fronte al suo primo vero banco di prova di politica estera: non tanto impedire la guerra — ormai già in corso — ma incanalarla entro limiti accettabili per gli interessi americani.
Potenza e gestione del disordine
Per Trump, la questione non è Gaza in sé, ma la dimostrazione della capacità americana di governare il disordine. Se Washington fallisse nel mantenere l’equilibrio tra Israele e Qatar, ne uscirebbe indebolita di fronte a rivali globali e partner regionali. È questa la logica che guida la Casa Bianca: non una mediazione di pace, bensì la gestione di una crisi come laboratorio di potenza.