Rafah, sud della Striscia di Gaza. Lì dove si concentrano tende, polvere e attese, arriva l’inviato speciale americano David Witkoff. Il convoglio scortato dall’ambasciatore Usa in Israele, Huckabee, raggiunge il centro di distribuzione della Gaza Foundation. Attorno, una folla di palestinesi in coda per ricevere pacchi alimentari.
Gaza, la fame ferma i negoziati
Washington prepara un nuovo piano per la consegna degli aiuti. Ma i negoziati restano bloccati. Hamas parla chiaro: “Non trattiamo finché a Gaza si muore di fame”. Il cibo diventa la condizione per aprire un dialogo politico. Prima la sopravvivenza, poi la trattativa.
Le immagini diffuse dalle tv israeliane mostrano la scena: le auto blindate, i sacchi di farina, le famiglie in attesa. Gaza vive con scorte ridotte all’osso. La distribuzione degli aiuti è lenta, insufficiente. La crisi umanitaria è il vero ostacolo a qualsiasi intesa.
La posizione di Hamas
Il movimento islamista lega ogni passo dei negoziati al miglioramento delle condizioni di vita nella Striscia. Nessun incontro, nessuna apertura finché la fame resta l’arma quotidiana. Una strategia che ribadisce la centralità della questione umanitaria, usata come barriera contro la pressione internazionale.
“Non trattiamo finché la gente muore di fame”, è la frase che blocca i tavoli. Nessun compromesso finché non arrivano cibo e medicine.
Le mosse internazionali
Gli Stati Uniti cercano di forzare la situazione con un piano umanitario strutturato. Witkoff è l’uomo scelto per guidare l’operazione. La Casa Bianca vuole dimostrare di avere ancora una leva su un conflitto che appare senza uscita.
Anche l’Europa si muove. La Germania si smarca da Israele, la Slovenia vieta il commercio di armi con il governo Netanyahu. Segnali di un progressivo distacco da una linea di sostegno totale. Sullo sfondo, i contatti diplomatici della premier Giorgia Meloni, che vola a Istanbul per incontrare Recep Tayyip Erdogan. L’Italia prova a ritagliarsi uno spazio, ma il quadro resta in mano a Washington.
Rafah, epicentro del dramma
Rafah diventa il simbolo. Migliaia di persone concentrate in un’area già devastata dalle operazioni militari. Le tende non bastano. Le file per il pane si allungano. Ogni pacco alimentare è conteso. L’arrivo di Witkoff certifica che la questione non è più marginale ma centrale: senza cibo, non c’è tregua, non c’è trattativa.
Gli operatori umanitari raccontano di bambini denutriti, di ospedali senza medicine, di scorte alimentari che durano poche ore. La fame è il linguaggio che detta le condizioni.
Israele isolato
Berlino prende le distanze. Lubiana interrompe il commercio di armi. Anche alleati storici cominciano a smarcarsi dal governo Netanyahu, accusato di usare la guerra come strumento politico interno. La posizione di Hamas trova così un’eco indiretta: senza aiuti, la legittimità delle trattative si sgretola.
Gli Stati Uniti provano a tenere insieme i fili. Witkoff vigila, osserva, promette interventi. Ma la logica resta bloccata. Senza pacchi di farina e senza acqua potabile, le parole dei diplomatici restano sospese.
Fame e politica
Il legame tra emergenza e negoziato diventa totale. A Gaza la politica è ridotta al gesto primario del nutrimento. Hamas lo sa, lo rivendica, lo trasforma in condizione assoluta. Israele prova a resistere alla pressione, ma vede crescere il fronte di Paesi che si sfilano.
La missione di Witkoff racconta un dato: senza risposte immediate all’emergenza, non ci sarà alcun tavolo politico. La fame diventa il vero mediatore.