Francesca Albanese, la relatrice ONU scomoda per Stati Uniti e Israele
- di: Cristina Volpe Rinonapoli

Francesca Albanese è relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati. Giurista, italiana, da mesi è sotto attacco per il suo lavoro. L’ultimo rapporto prodotto dal suo mandato ha riaperto un fronte politico e diplomatico: nomi di aziende, in larga parte statunitensi, che trarrebbero beneficio economico dall’occupazione israeliana. Sono compagnie che forniscono tecnologie di sorveglianza, materiali da costruzione, infrastrutture o servizi logistici legati agli insediamenti nei territori palestinesi. Per questo dossier, gli Stati Uniti hanno lanciato una campagna di delegittimazione personale contro di lei. Non c’è una sanzione ufficiale, ma una pressione politica forte, esplicita.
Francesca Albanese, la relatrice ONU scomoda per Stati Uniti e Israele
La lista pubblicata dal suo ufficio aggiorna un precedente rapporto delle Nazioni Unite del 2020, che già aveva generato reazioni feroci. Le aziende citate sono accusate di contribuire materialmente all’espansione degli insediamenti israeliani, considerati illegali dal diritto internazionale. Nel nuovo aggiornamento sono finiti anche alcuni giganti con sede negli Stati Uniti, che ora pretendono la rimozione immediata del documento. La reazione politica è stata violenta: alcuni membri del Congresso americano hanno chiesto formalmente l’allontanamento della relatrice dalle Nazioni Unite. Albanese, però, non ha un contratto politico: ha un mandato indipendente, non risponde né agli Stati membri né al Segretario Generale.
Il metodo dell’attacco personale
Albanese è una delle figure più esposte delle Nazioni Unite sul dossier palestinese. La sua voce ha rotto l’equilibrio fragile di chi si limita a dichiarazioni formali. Invece, lei documenta, nomina, accusa. Lo aveva fatto già in passato, quando aveva parlato esplicitamente di apartheid e crimini di guerra nella gestione israeliana dei territori occupati. Le reazioni non si sono fatte attendere: l’accusa più ricorrente è quella di antisemitismo, una strategia retorica che mira a disinnescare ogni critica politica. I suoi post social, vecchie dichiarazioni, frasi estrapolate: è tutto passato al setaccio. L’obiettivo è uno solo: toglierle legittimità.
Guerra dell’informazione
Negli ultimi mesi il suo nome è diventato sinonimo di scontro aperto. Da un lato, il diritto internazionale, i rapporti delle Nazioni Unite, il principio di responsabilità. Dall’altro, le pressioni politiche di governi e lobbisti. La sua figura è divisiva proprio perché non evita la complessità. Racconta ciò che accade nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania con un linguaggio giuridico, non diplomatico. Secondo fonti palestinesi, i morti dall’inizio dell’operazione militare israeliana a Gaza hanno superato le 38.000 unità. Francesca Albanese ha definito quelle operazioni come crimini contro l’umanità. Per molti è diventata un bersaglio. Per altri, una delle poche voci libere in un’istituzione sempre più isolata.
La scelta di restare
Albanese ha risposto agli attacchi senza cedere: “Non hanno mai smentito i fatti, si limitano ad attaccare chi li espone”. È una posizione che porta avanti da anni, inascoltata dalle cancellerie occidentali. La sua figura rappresenta una crepa, uno spazio non allineato. Ma ora quel ruolo è più fragile. Non è chiaro se l’ONU riuscirà a proteggerla o se cederà alla pressione. Intanto, attorno a lei cresce un fronte di solidarietà. Ma è il contesto internazionale a essere sempre più ostile alla verità.