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Il “food noise” come variabile economica

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il “food noise” come variabile economica

Il dibattito sul cosiddetto food noise – il rumore mentale legato al pensiero ossessivo sul cibo – è entrato in ambito clinico solo negli ultimi anni, ma in economia della salute è già trattato come un fattore di costo. Non si parla di alimentazione, bensì di carico cognitivo: un’attenzione che non può essere utilizzata altrove. È uno dei motivi per cui negli Stati Uniti il fenomeno è stato ricondotto non solo alla psicologia comportamentale, ma alle dinamiche del potenziale produttivo.

Il “food noise” come variabile economica

Più tempo la mente resta impegnata in pensieri ripetitivi e non necessari, minore è l’efficienza cognitiva complessiva. In un mercato del lavoro che misura la performance sulla continuità dell’attenzione, questa frizione diventa un elemento economico.

Quando il consumo mentale diventa un costo
Il food noise sottrae risorse a ciò che gli economisti chiamano bandwidth cognitiva: la capacità di elaborazione disponibile. Se una quota di quell’attenzione viene spesa per monitorare continuamente cibo, peso, controllo o astinenza, resta meno spazio per altre funzioni. Non è un fenomeno marginale: rientra tra i cosiddetti costi indiretti del benessere, quelli che non compaiono nei bilanci pubblici ma incidono sul prodotto potenziale.
L’economia del lavoro lo interpreta come una forma di micro-interruzione continua: brevi, invisibili, ma ripetute. Nella somma, equivalgono a tempo produttivo perso.

Il legame con il mercato farmaceutico

Il tema è arrivato ai grandi player farmaceutici prima che all’opinione pubblica. I farmaci basati su agonisti GLP-1, nati per il diabete e oggi usati anche per la perdita di peso, hanno rivelato un effetto inatteso: l’attenuazione del rumore mentale sul cibo. Questo non solo facilita la riduzione dell’introito calorico, ma libera attenzione. È una delle ragioni – meno dichiarate ma economicamente centrali – della loro diffusione rapida: non agiscono solo sul corpo, ma su un comportamento che sottraeva risorse cognitive.
Per l’industria, significa rispondere a una domanda crescente di regolazione dell’impulso, cioè di efficienza mentale prima ancora che fisica.

Effetti sui consumi: non è il cibo a cambiare, è l’impulso d’acquisto
La conseguenza è visibile anche nei dati commerciali: quando il food noise diminuisce, muta la struttura degli acquisti. I prodotti comprati “per automatismo emotivo” rallentano, mentre cresce la spesa programmata e meno impulsiva. I segmenti che iniziano a risentirne non sono quelli principali dell’alimentazione, ma i picchi di consumo fuori pasto – ciò che intercetta emozione, non fame.
È qui che il fenomeno entra nell’economia reale: non riguarda la nutrizione, ma il comportamento che genera domanda.

Una variabile che interessa i policy maker
Negli studi di produttività, questo tema è ormai considerato una delle nuove componenti del benessere cognitivo. Non perché sia “soft”, ma perché misura la dispersione dell’attenzione, oggi l’asset più scarso. Nei sistemi avanzati, dove l’economia è a intensità cognitiva più che fisica, tutto ciò che interferisce con la continuità mentale è trattato come variabile di contesto economico.
Per i decisori pubblici il punto non è il cibo, ma il fatto che un disturbo del comportamento alimentare si traduce in un disturbo del capitale umano.

Non è psicologia privata: è economia del tempo mentale
Il food noise segnala la crescente centralità del benessere cognitivo nell’architettura economica contemporanea. Dove la produttività dipende dall’attenzione più che dalla forza lavoro, ciò che erode attenzione erode crescita potenziale. È questa la ragione per cui il fenomeno interessa imprese, sanità e policy maker più di quanto sembri: la dieta non è la variabile; lo è la qualità dell’energia mentale disponibile.

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