Nel 2024 sono morte 491 persone in montagna. È il dato ufficiale diffuso dal Corpo Nazionale del Soccorso Alpino, che ha effettuato oltre 12mila interventi in un solo anno, una media di 33 al giorno. E sebbene le vittime siano leggermente in calo rispetto all’anno precedente, la tendenza generale è stabile e preoccupante. La maggior parte degli incidenti non avviene su pareti verticali o in condizioni estreme: a uccidere è l’escursionismo ordinario, quello del weekend, il più accessibile e per questo più insidioso. In Italia, la montagna resta ancora percepita come un parco ricreativo, più che come un ambiente naturale complesso, vivo e fragile.
Escursionismo, 491 morti nel 2024: la montagna non perdona l'improvvisazione
Una delle dinamiche più evidenti degli ultimi anni è l’estetizzazione della montagna. I social network hanno trasformato le vette in set fotografici, i sentieri in contenuti da condividere, le esperienze in prestazioni da dimostrare. Questo fenomeno, ormai diffuso anche tra i giovanissimi, ha aumentato la frequentazione ma anche la leggerezza con cui ci si avvicina all’ambiente alpino e appenninico. Salite improvvisate, abbigliamento inadeguato, assenza di cartografia, mancata conoscenza delle condizioni meteo: la montagna diventa sfondo, non più soggetto, e come ogni scenario idealizzato, perde di realtà.
La cultura del rischio dimenticata
Negli ultimi decenni l’Italia ha investito moltissimo nella promozione turistica della montagna, molto meno nell’educazione alla sua frequentazione consapevole. Le campagne informative restano frammentarie, le scuole raramente integrano l’educazione ambientale con nozioni di orientamento, sopravvivenza, lettura del paesaggio. Il rischio è diventato un tabù o, peggio, un argomento da addetti ai lavori. Ma la montagna non è neutra. Esige preparazione, ascolto, umiltà. E invece si assiste a un progressivo analfabetismo escursionistico, dove anche l’escursione elementare viene affrontata senza una cultura del limite.
Clima e nuovi pericoli
Il cambiamento climatico ha trasformato la montagna in profondità. Il terreno è più instabile, i ghiacciai si ritirano, i versanti cedono anche a quote basse. Le frane non sono più un’eccezione, ma una componente della nuova morfologia alpina. Piove di più, ma in modo irregolare. Nevica meno, ma le valanghe sono più imprevedibili. L’escursionista medio, però, non ha strumenti per interpretare questi segnali. La natura cambia in silenzio, ma l’uomo continua ad affrontarla con mappe vecchie, app da città e illusioni di controllo. In questo scarto tra ciò che la montagna è diventata e ciò che pensiamo sia, si apre lo spazio del pericolo.
Il Soccorso Alpino non basta
I volontari del Soccorso Alpino rappresentano un’eccellenza civile italiana. Ma non possono essere l’unico argine alla sottovalutazione collettiva del rischio. Il loro lavoro, tecnico e discreto, spesso arriva quando ormai il danno è fatto. Eppure sempre più spesso vengono chiamati per situazioni evitabili: escursionisti colti dal buio per non aver calcolato i tempi, turisti dispersi per aver seguito percorsi non segnati trovati su un blog, gruppi interi bloccati dalla pioggia senza un k-way nello zaino. La questione non è solo tecnica, è culturale.
Verso una nuova cittadinanza della montagna
Occorre ripensare il rapporto tra italiani e montagna, uscire dalla logica della fruizione e tornare a una logica della relazione. La montagna può essere palestra ecologica, esperienza spirituale, strumento educativo. Ma solo se affrontata con consapevolezza. Serve un piano nazionale di alfabetizzazione montana, un’integrazione tra scuola, turismo, istituzioni e media. Serve, soprattutto, un cambio di sguardo: dalla montagna vista come consumo, alla montagna vissuta come comunità.
La montagna non è mai neutra. Non perdona l’improvvisazione. Ma può insegnare molto, se la si ascolta con rispetto.