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Giappone, l’inflazione corre e lo yen affonda

- di: Matteo Borrelli
 
Giappone, l’inflazione corre e lo yen affonda
Giappone, l’inflazione corre e lo yen affonda
Prezzi al consumo al 3% in ottobre, famiglie sotto pressione per cibo e bollette. La Bank of Japan valuta un rialzo dei tassi a dicembre mentre i dazi di Trump frenano l’export e riportano in recessione la terza economia mondiale.

(Foto: lo yen, la moneta giapponese perde valore).

In Giappone il decennio dei prezzi quasi fermi è definitivamente archiviato. A ottobre l’inflazione di fondo è salita al 3% su base annua, in lieve accelerazione rispetto al 2,9% di settembre e ben oltre il target del 2% fissato dalla Bank of Japan. Sono numeri che, letti da soli, potrebbero sembrare modesti rispetto all’impennata vista in Europa o negli Stati Uniti. Ma per un Paese abituato per anni alla deflazione, il cambio di regime è radicale: l’inflazione è stabilmente sopra il 2% dall’aprile 2022 e sta erodendo il potere d’acquisto di famiglie che dipendono in larga misura da beni importati.

Il motore di questa fiammata è uno yen debolissimo, scivolato ai minimi pluridecennali contro il dollaro, e la lunga scia dei rincari energetici e alimentari. Il paradosso è che la moneta debole aiuta sulla carta le esportazioni, ma arriva nel momento peggiore: l’America trumpiana ha alzato i dazi su gran parte dei prodotti giapponesi e ha colpito al cuore l’auto, il settore simbolo del “made in Japan”. Risultato: le vendite all’estero tengono solo in Asia, l’economia si è contratta nel terzo trimestre e la banca centrale si ritrova in una vera e propria trappola di politica monetaria.

La corsa dei prezzi nel carrello della spesa

Dietro quel 3% di inflazione ci sono voci che pesano direttamente sulla vita quotidiana. Secondo i dati diffusi dal governo a Tokyo il 21 novembre, i prezzi dei generi alimentari esclusi i prodotti freschi sono balzati di circa oltre il 7% su base annua, mentre le tariffe dei servizi pubblici – luce, gas, acqua – segnano un aumento di poco più del 2%. Un indice ancora più ristretto, che elimina sia il cibo fresco sia l’energia, sale attorno al 3,1%, segnale che la spinta non è più solo importata ma si sta infiltrando anche nei servizi interni.

Tradotto: il Giappone paga cara la sua struttura economica. Il Paese è quasi totalmente privo di risorse naturali e dipende dalle importazioni per il fabbisogno energetico e una parte essenziale dell’alimentazione. Con lo yen indebolito, ogni container che attracca nei porti giapponesi costa di più in valuta locale. Anche dopo la fine di molti sussidi pubblici sulle bollette, i rincari accumulati continuano a farsi sentire nel bilancio delle famiglie.

Al tempo stesso, la dinamica salariale comincia a muoversi, ma con tempi ancora troppo lenti per compensare il caro vita. Le grandi imprese hanno concesso aumenti più generosi nell’ultimo “shuntō”, la stagione dei rinnovi contrattuali, ma la rete di piccole e medie aziende fatica a tenere il passo. Il rischio è quello di una inflazione percepita molto più alta delle statistiche ufficiali, che alimenta malcontento e spinge a contrarre i consumi discrezionali.

La Bank of Japan in trappola tra inflazione e crescita

Dopo più di un decennio di tassi negativi e acquisti massicci di titoli pubblici, la Bank of Japan ha voltato pagina nel 2025. A gennaio ha portato il tasso di riferimento allo 0,5% e ha iniziato a smantellare con cautela il vecchio regime ultra-espansivo. Da allora, però, ha mantenuto il costo del denaro fermo, proprio mentre l’inflazione continuava a superare il 2% e il dibattito interno si faceva più acceso.

Negli ultimi verbali del consiglio, resi pubblici a fine ottobre, emergono le prime vere spaccature: almeno due membri del board hanno proposto di alzare subito il tasso allo 0,75%, sostenendo che il Giappone si sia ormai lasciato alle spalle la “norma deflazionistica” e che l’obiettivo di stabilità dei prezzi sia sostanzialmente raggiunto.

Il governatore Kazuo Ueda, pur continuando a muoversi con prudenza, ha lanciato un avvertimento che suona definitivo: mantenere troppo a lungo una politica eccessivamente espansiva rischia di destabilizzare l’economia. In un recente confronto con il governo, Ueda ha ribadito che la banca centrale è pronta a intervenire “se sarà convinta che l’inflazione di fondo resterà stabilmente attorno al 2%”, lasciando intendere che il meeting del 18-19 dicembre sarà un passaggio chiave per un nuovo rialzo dei tassi.

Ancora più esplicito è stato Koji Koeda, uno degli ultimi entrati nel board della Boj, che in un intervento pubblico ha osservato: “L’inflazione di fondo si aggira intorno al 2%, ma il punto è capire quanto questa dinamica sia stabile e radicata”. Un modo elegante per dire che tenere i tassi reali profondamente negativi, in presenza di un’inflazione che persiste, non è più sostenibile nel lungo periodo.

Yen debole, famiglie alla cassa e mercati in allerta

La questione della valuta è il filo rosso che lega inflazione, export e politica monetaria. Il cambio dollaro/yen ha flirtato con quota 160, livelli che non si vedevano dagli anni Ottanta, trasformando il Giappone in un gigantesco caso da manuale di “carry trade”: investitori che prendono in prestito in yen a tassi bassi per comprare asset più remunerativi altrove. Una dinamica che tiene giù la valuta e, allo stesso tempo, rende più rischioso ogni rialzo dei tassi troppo brusco.

Per il cittadino comune, però, questi giochi di mercato si traducono in una realtà molto semplice: vita più cara. Le famiglie pagano di più per alimenti di base come carne, olio da cucina, prodotti lattiero-caseari, e fanno fatica a rientrare dalle spese energetiche aumentate negli ultimi anni. Il governo ha adottato vari pacchetti di sostegno – dal taglio temporaneo delle accise sui carburanti a trasferimenti mirati – ma l’impressione diffusa è che l’emergenza non sia affatto finita.

La debolezza dello yen, infatti, agisce come una tassa occulta sui consumatori: riduce il potere d’acquisto in tutti i segmenti dove entrano beni importati e rende più costosa ogni vacanza all’estero. Al tempo stesso, alimenta i profitti delle grandi multinazionali che incassano in dollari ed euro, aumentando il divario tra chi esporta e chi vive solo di redditi interni.

I numeri dell’export: bene l’Asia, male l’America di Trump

Se si guarda solo al dato complessivo, le esportazioni a ottobre sembrano tenere: il valore delle vendite giapponesi all’estero è salito di circa 3,6-3,7% su base annua, secondo le statistiche del ministero delle Finanze diffuse il 21 novembre. Il quadro cambia del tutto quando si scende nel dettaglio geografico. Le spedizioni verso gli Stati Uniti, cioè il principale mercato extra-asiatico di Tokyo, sono scese di poco più del 3%, segnando il settimo calo consecutivo e confermando l’effetto delle nuove barriere tariffarie decise dalla Casa Bianca.

Da luglio 2025 Washington applica un dazio del 15% su quasi tutte le importazioni dal Giappone, in parte ridotto rispetto all’aliquota iniziale del 25% sui veicoli e sulle componenti auto ma comunque ben al di sopra del vecchio livello del 2,5%. Un colpo particolarmente duro per le grandi case automobilistiche, che pure negli ultimi anni hanno delocalizzato una parte della produzione proprio per aggirare la guerra dei dazi.

A fare da contrappeso ci sono le esportazioni verso il resto dell’Asia: Cina, Hong Kong, Taiwan e altri mercati della regione hanno assorbito più prodotti giapponesi, con incrementi che in alcuni casi sfiorano e superano la doppia cifra. È anche grazie a questo riequilibrio che il disavanzo commerciale complessivo si è ridotto a poco più di 230 miliardi di yen, circa la metà rispetto a un anno fa. Ma il messaggio che arriva dai dati è chiaro: il modello di crescita trainato dall’export verso gli Stati Uniti vacilla.

Economia in contrazione e sfida per il governo Takaichi

L’effetto combinato di inflazione più alta, yen debole e dazi americani si è visto con forza nei conti nazionali. Nel terzo trimestre del 2025 il prodotto interno lordo giapponese si è contratto di circa l’1,8% in termini annualizzati (–0,4% rispetto al trimestre precedente), interrompendo una striscia di sei trimestri consecutivi di crescita. Il contributo delle esportazioni nette alla crescita è passato da positivo a negativo: le vendite all’estero hanno frenato, mentre le importazioni sono rimaste relativamente sostenute.

Per la nuova premier Sanae Takaichi, insediata da poche settimane, si tratta del primo, immediato crash test: da un lato bisogna contenere il malcontento di famiglie e imprese che chiedono misure contro il caro vita; dall’altro occorre evitare che il rapporto con l’amministrazione Trump entri in una spirale di ritorsioni. Le recenti dichiarazioni di Takaichi su Taiwan hanno già provocato irritazione a Pechino, con l’emanazione di un avviso ai cittadini cinesi che intendono recarsi in Giappone. Un ulteriore fattore di incertezza per un’economia che ha bisogno come l’aria di un contesto esterno prevedibile.

Gli economisti che seguono il Paese avvertono che una recessione più prolungata non è uno scenario da escludere. La stessa Bank of Japan, nell’ultimo rapporto di previsione, parla di una crescita “modesta” nei prossimi anni, frenata proprio dalle politiche commerciali restrittive dei partner e dal rallentamento dei profitti aziendali. Allo stesso tempo, però, segnala un moderato aumento delle aspettative di inflazione, segno che la fase di prezzi piatti è alle spalle.

Tra Trump e i mercati: perché Tokyo conta per tutti

Ciò che accade a Tokyo non è un fatto locale. Il Giappone resta la terza economia del pianeta, è uno dei maggiori creditori mondiali e ha un ruolo chiave nei mercati finanziari globali grazie al suo enorme stock di risparmio. Se la Bank of Japan sarà costretta ad alzare i tassi più velocemente del previsto per domare l’inflazione – e per difendere uno yen sotto attacco speculativo – gli effetti si riverseranno a cascata sui flussi di capitale, sui rendimenti obbligazionari e, in ultima analisi, sull’intero equilibrio monetario internazionale.

I dazi decisi da Donald Trump sul made in Japan, nel frattempo, rappresentano un test di lungo periodo per la capacità delle economie avanzate di convivere con una strategia apertamente protezionista da parte di Washington. Per Tokyo significa dover accelerare la diversificazione dei mercati di sbocco, rafforzare i legami con il Sud-Est asiatico e l’Europa e, allo stesso tempo, usare la politica economica interna – fiscale e monetaria – per evitare che l’inflazione importata si trasformi in una crisi sociale.

La prossima riunione della Bank of Japan, a ridosso delle festività di fine anno, rischia quindi di diventare molto più di una normale revisione dei tassi: sarà letta dai mercati come un referendum sulla fine definitiva dell’era dei tassi a zero in Asia e come un segnale su quanto spazio resti per la guerra commerciale di Washington senza provocare una nuova ondata di instabilità globale.

Per l’Europa e per l’Italia, che con il Giappone intrattengono rapporti commerciali e industriali rilevanti – dall’automotive all’elettronica, dalle macchine utensili all’agroalimentare – la traiettoria di Tokyo è un indicatore anticipatore prezioso: mostra che il mix tra inflazione importata, tassi bassi e shock geopolitici è uno schema destinato a ripetersi. E che non ci saranno risposte facili quando, dopo il Giappone, toccherà ad altri Paesi misurarsi con la stessa equazione.

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