L'esperimento Draghi è fallito, anche se dovesse ottenere la fiducia
- di: Redazione
Quale che sarà l'esito del confronto in aula (tra Senato e Camera) sulla fiducia al governo, oggi si è sancita la fine dell'esperienza di Mario Draghi come presidente del Consiglio. Perché, anche se dovesse ottenere la fiducia, il suo sarà un esecutivo debole, non tanto nei numeri, quanto nella formula.
Il dibattito al Senato ha restituito l'immagine plastica della spaccatura del Paese, di come gli interessi politici e di bottega siano fatti prevalere su quelli della gente che, se ha avuto tempo e voglia di seguire le varie dichiarazioni, si sarà chiesta quali siano i peccati che l'Italia sta scontando per meritarsi siffatta classe politica.
Governo: l'esperimento Draghi è fallito
Dando per scontato che, come sempre, tutti hanno ragione e nessuno torto, il dibattito è stata la rappresentazione di come ormai la partita sul futuro del governo c'entri poco o nulla con gli errori che, da una parte all'altra dell'emiciclo, gli sono stati contestati. Con alcune punte di assoluta follia (non solo politica), come quando è stato addebitato al governo un preciso programma per eliminare gli anziani, inoculando loro vaccini specificamente concepiti per cancellarli dalla faccia della Terra.
Tutti hanno ragione e nessuno ha sbagliato. Un mantra che è risuonato costantemente, perché nessuno s'è fatto carico di ammettere che forse si poteva anche non arrivare a questo punto.
Un punto che, se Draghi dovesse mollare, porterebbe il Paese in una bufera finanziaria perché era lui il garante dell'Italia con l'Europa e oggi c'è qualche difficoltà a cercare di individuare chi potrebbe prenderne il posto, per prestigio e statura economica.
Questo non significa, però, che a Draghi devono essere perdonati gli errori che pure ha fatto, a cominciare dall'essere arrivato al punto di portare i Cinque Stelle a ribellarsi, senza saperne disinnescare per tempo le intemperanze. Che, su alcuni argomenti, ci potevano anche stare, ma che hanno pagato una tempistica quanto meno sospetta, perché essa lascia pensare a lacerazioni interne al movimento, alla cui guida Giuseppe Conte paga il non sapere decidere in autonomia e, soprattutto, senza lasciarsi condizionare dal carico di rabbia che si porta dietro per il modo in cui è stato accompagnato al portone di Palazzo Chigi, insieme al fido Rocco Casalino, che continua a fare e disfare pur essendo lui solo un tecnico della comunicazione e non un politico.
Ma a fare veramente vacillare la possibilità che Draghi resti al suo posto, e soprattutto alle sue condizioni (che, ha detto in sede di replica, non vuol dire che pretende i pieni poteri), è stata la ritrovata compattezza del centrodestra che sembra ormai avere accettato la leadership di Giorgia Meloni, perché con i numeri si può giocare, ma non scherzare. La mozione comune del centrodestra (compresi cespugli e rampicanti) ha ricompattato tutti, ma poi si deve andare alla prova del voto e non è detto che, davanti alla prospettiva dello scioglimento delle Camere, ci sia l'unanimità che si sbandiera.
Perché bisognerà fare metabolizzare a Giorgetti e al partito dei governatori che la Lega - pretendendo rimpasto e cacciata dei ministri ad essa non graditi, di fatto un ultimatum di quelli che vogliono essere respinti - va ad abdicare al suo ruolo per chinare il campo ad una nuova conformazione dell'alleanza che vede il partito subordinato a Fratelli d'Italia. Che saranno pure disposti a cedere qualcosa anche di importante pur di avere il premier, ma non certo, metaforicamente parlando, a calarsi le brache davanti alle richieste che avanzeranno Salvini (che schiuma per tornare al Viminale, non potendo più aspirare a Palazzo Chigi) e Berlusconi (che, alla sua pur veneranda età, ricomincia a pensare al Quirinale nel caso in cui il presidente Mattarella, dopo il fallimento del progetto Draghi, dovesse decidere di accorciare la permanenza al Colle).