Covid-19: e se ripartissimo dai nostri borghi?

- di: Diego Minuti
 

Su quali macerie (virtuali, ma neanche tanto) l'Italia riuscirà a costruire il suo futuro, dopo che il Paese sarà veramente messo in sicurezza dal Covid-19 e, quindi, dai suoi effetti? E' il dibattito che si è aperto, ormai da settimane, e che, con variare delle prospettive e delle angolazioni, suggerisce mille ed una proposta, come se l'Italia del ''dopo'' fosse un blocco di plastilina messo tra le mani sapienti di un demiurgo, dotato di ogni potere (quindi magari un gradino sopra a Giuseppe Conte ed uno sotto a quello al quale ambiva Matteo Salvini e prima di lui l'altro Matteo) da finalizzare comunque al bene comune. Ogni ricetta può andare bene, con il solo limite derivato dalla sua fattibilità e dal reale margine di crescita per il Paese. Ma c'è ricetta e ricetta, perché in molti - ormai gli economisti si posizionano dopo i virologi e gli infettivologi nella lista dei personaggi con maggiore visibilità di questo frangente della vita italiana - immaginano realtà che sono virtuali, basate su modelli matematici e tavole statistiche che, laddove fallissero, porterebbero un Paese intero al baratro. Senza Mes o eurobond che tengano. Per curiosità e perché è il mio mestiere, ho letto quasi tutte queste proposte (scartando solo quelle palesemente estemporanee o provocatorie o gettate lì per mero tornaconto politico) e, tra di esse, il mio interesse si è focalizzato su quelle che spingono affinché  l'Italia si riappropri di un patrimonio che colpevolmente ha lasciato che si perdesse, incapace, nelle sue classi dirigenti, di capire in quale peccato fosse caduta. Parlo dell'Italia che raramente appare nei telegiornali, se non per servizi che riguardano specificità culinarie o architettoniche o storiche, ma senza promuoverne realmente il recupero. Sono i borghi d'Italia, non quelli da cartolina e che, nel tempo, hanno sacrificato la loro originalità sull'altare del turismo invasivo e cafone, che porta reddito, ma ti mangia l'anima. I nostri borghi, lo ricordo rimasticando qualche reminiscenza storica, spesso nascevano per paura, perché, all'epoca delle scorrerie moresche, si sapeva che i predoni venuti dal nord Africa difficilmente si addentravano nel territorio, preferendo depredare le coste e ripartire. Piccoli spezzoni di civiltà e storia, enclavi in cui chi era fuggito ricreava o cercava di farlo il tessuto sociale che aveva dovuto abbandonare. Ma quei borghi di piccolo avevano solo i perimetri, perché al loro interno, come sangue nelle vene, fluiva la linfa vitale della nostra cultura, dell'attaccamento alla terra, della tenacia nel difenderla. Oggi la quasi totalità di questi borghi, anche quelli nati in epoche più recenti, vivono lo spopolamento come conseguenza del ritorno alle coste, al mare, da cui tutto nasce e deriva. E questo non ha comportato solo il depauperamento di un patrimonio edilizio ingente e lasciato andare in malora, ma anche la perdita di identità culturali originali e spesso irripetibili. Negli ultimi decenni in molti hanno tentato di recuperare, al Paese, la fruizione di questi borghi,ncozzando spesso contro le muraglie erette dalla burocrazia, intesa non come guardiana della correttezza delle procedure, ma come ottusa esecutrice di regolamenti che spesso non hanno alcuna logica e mancano di umanità. In un numero consistente hanno accolto questo grido lanciato a favore della rinascita dei borghi e, come è giusto aggiungere, molti sono stranieri che, più degli italiani, li apprezzano. E' come quello che vede da anni ogni giorno la stessa bellissima donna e a tale bellezza poi si abitua, non apprezzandola più. Noi abbiamo avuto davanti agli occhi la bellezza dei borghi e non abbiamo fatto nulla per renderne tutti partecipi. Certo, arrivo buon ultimo nel sottolineare questa esigenza di recuperare i nostri borghi (prima di me lo hanno fatto gli architetti Stefano Boeri (quello del Bosco verticale, di Milano, ed Angelo Monti, presidente dell'associazione  Urbanlab), ma la loro proposta mi sembra un punto su cui discutere, partendo dalla consapevolezza che allentare la pressione demografica sulle grandi città diventa un passaggio necessario se si pensa ad un futuro meglio organizzato e proattivo rispetto al nostro presente. Rivitalizzare i borghi non significa abbandonare i grandi agglomerati urbani, ma certo contribuirebbe a restituire gli italiani ad una migliore vivibilità, in qualche modo affrancandoli dalla dipendenza dalla tecnologia di cui oggi soffrono in modo evidente. I borghi come migliori condizioni di vita, ma anche come occasione per tessere trame del vivere civile, in un senso comunitario che purtroppo s'è andato perdendo.

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