Un compromesso che evita lo scontro frontale sui fossili ma triplica i finanziamenti per l’adattamento. Diplomazie affaticate, proteste globali, commenti divisi. E il Brasile rivendica il primato del multilateralismo.
(Foto: Un momento della Conference of parties - Cop)
Alla fine, quando ormai si temeva un naufragio clamoroso, la Cop30 (Conference of the Parties) di Belém ha trovato un accordo. Non un capolavoro, ma il segnale che la diplomazia climatica – pur frastornata dalle grandi fratture geopolitiche – riesce ancora a produrre una sintesi minima. Il risultato arriva al termine di una settimana tesa, segnata da negoziati interrotti, accuse incrociate e persino un incendio scoppiato nell’area esterna del centro congressi, episodio che ha contribuito a creare un clima da vigilia apocalittica.
La notizia principale è chiara: i fondi per l’adattamento ai cambiamenti climatici saranno triplicati entro il 2035, arrivando – nelle intenzioni – a circa 120 miliardi di dollari. Una cifra che non risolve tutto, ma che rilancia un segmento cruciale dell’azione climatica, spesso sacrificato rispetto alla riduzione delle emissioni. La svolta, riferiscono fonti diplomatiche brasiliane del 22 novembre, è arrivata a notte fonda, quando un asse informale tra Brasile, Unione Europea, India e un gruppo di Paesi africani ha fatto pendere la bilancia verso il compromesso.
Il grande assente
Il grande assente del vertice sono stati gli Stati Uniti, impegnati in una fase politica interna che ha riportato al centro un’agenda climatica sempre più indebolita. Il loro posto vuoto nella sala principale è stato letto da più delegazioni come un simbolo di un Occidente che fatica a dare continuità agli impegni internazionali.
Lula e la scienza che prevale
Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, impegnato nel contemporaneo G20 di Johannesburg, non ha nascosto la soddisfazione. «La scienza ha prevalso, il multilateralismo ha vinto», ha dichiarato, definendo l’accordo un segnale necessario in un anno segnato dal superamento – forse permanente – della soglia di 1,5 gradi sopra i livelli preindustriali.
Il riferimento allo storico limite, registrato da analisi climatologiche pubblicate tra ottobre e novembre 2025, ha dato il tono politico all’intera Cop: il pianeta non discute più se cambiare rotta, ma come farlo senza frantumare la geografia del potere globale.
L’Europa applaude con prudenza
Dalle capitali europee arrivano reazioni contrastate ma nel complesso favorevoli. Il commissario Ue al clima Wopke Hoekstra ha ammesso che avrebbe voluto un accordo «più ambizioso», ma ha riconosciuto che un testo imperfetto è meglio di un fallimento. Da Roma, il ministro dell’Ambiente italiano ha parlato del risultato come di «una scelta necessaria», giudicando positivo l’impegno sui finanziamenti per l’adattamento.
Il grande silenzio sui combustibili fossili
Il punto più contestato del compromesso è l’assenza totale del termine «combustibili fossili». La richiesta di Arabia Saudita e Russia di eliminare ogni riferimento esplicito a petrolio, gas e carbone è stata accolta, malgrado l’opposizione iniziale di diversi Paesi sudamericani e di parte dell’Ue.
Qui si è aperto il fronte più teso. Gustavo Petro, presidente della Colombia, ha criticato senza mezzi termini: «Non posso accettare un testo che non riconosce la causa della crisi climatica: l’uso dei combustibili fossili. Senza questo, tutto il resto è ipocrisia». La Colombia – che ospiterà ad aprile una conferenza internazionale dedicata proprio all’uscita dalle fonti fossili – teme che il compromesso brasiliano indebolisca il percorso di uscita globale.
Il presidente della Cop30, André Corrêa do Lago, ha provato a calmare le acque: «So che molti di voi avrebbero voluto di più. Cercherò di non deludervi nei prossimi mesi», ha promesso. Sarà lui a guidare la transizione verso la Cop31 di Antalya, in Turchia.
Il ruolo del Brasile e la “Belém Mission to 1.5”
Oltre all’incremento dei fondi, l’accordo introduce due nuovi strumenti: il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5, piattaforme volontarie che dovrebbero aiutare i Paesi a sviluppare piani più rapidi di transizione energetica. È qui che potrebbe rientrare, nei prossimi mesi, il tema dei fossili, ma senza vincoli espliciti.
Tra i punti meno discussi ma altamente politici, figura l’inserimento – chiesto dalla Cina – di un riferimento al commercio internazionale, che mette in guardia contro l’uso di norme climatiche come possibili strumenti di discriminazione economica. Un passaggio che riflette la crescente tensione tra Pechino, Unione Europea e Stati Uniti sulle politiche industriali verdi.
Proteste globali e performance simboliche
In parallelo ai negoziati, in tutto il mondo si sono moltiplicate le proteste ambientaliste. In Italia, gruppi di attivisti hanno colorato di verde fontane e corsi d’acqua in diverse città, incluso il Canal Grande di Venezia, per richiamare l’attenzione sulla lentezza dei governi nel riconoscere la responsabilità dei combustibili fossili.
Un accordo di sopravvivenza diplomatica
Belém non passerà alla storia come la Cop della svolta, ma come quella in cui – dopo mesi di stallo internazionale – la diplomazia è riuscita a evitare il collasso del processo multilaterale. Un compromesso fragile, pieno di omissioni, ma pur sempre un accordo in un anno in cui persino questo sembrava irraggiungibile.