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Giulia Cecchettin, la rinuncia di Turetta e il silenzio che resta

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Giulia Cecchettin, la rinuncia di Turetta e il silenzio che resta

C’è qualcosa di terribilmente quieto nella notizia che arriva da Verona: Filippo Turetta, condannato all’ergastolo per l’uccisione di Giulia Cecchettin, ha deciso di rinunciare all’appello. Ha scritto una lettera, a mano, con parole che dice di aver pensato a lungo. Parla di pentimento, di accettazione della giustizia. È un gesto che chiude un procedimento, ma non la storia. Non quella di Giulia, non quella delle centinaia di donne che ogni anno muoiono per mano di uomini che dicevano di amarle.

Giulia Cecchettin, la rinuncia di Turetta e il silenzio che resta

La giustizia compie il suo dovere, ma resta sempre qualcosa che sfugge: quel bisogno di controllo, quella idea di possesso che ancora oggi, nel 2025, sembra radicata nel cuore di troppi.

Il peso di un gesto che si ripete
Nella sentenza della Corte d’Assise di Venezia, i giudici hanno parlato di premeditazione, non di raptus. Turetta aveva scritto, annotato, programmato. Un delitto lucido, non improvviso.
Non c’è niente di romantico, niente di tragico. C’è la freddezza di chi trasforma la relazione in dominio. E dietro ogni gesto di questo tipo, c’è un modello culturale che non abbiamo ancora saputo spezzare.

Perché la violenza di genere, come ricorda la Convenzione di Istanbul, non è un fatto privato: è una questione politica e sociale. È il riflesso di un disequilibrio antico, di un potere maschile che non accetta la libertà femminile come diritto pieno.

I numeri che raccontano la realtà
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, 84 donne sono state uccise nei primi nove mesi del 2025. Sessantadue di loro da partner o ex partner. Una ogni quattro giorni. Numeri che scorrono via come un elenco burocratico, ma dietro ciascuno c’è una vita interrotta, una voce che non si sente più.

L’Istat ricorda che una donna su tre in Italia ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. La maggior parte non denuncia. Per paura, per vergogna, per sfiducia. Forse anche perché intorno spesso trova silenzio o indifferenza.

Il linguaggio, la memoria, la responsabilità

Le parole che usiamo contano. Dire che Turetta è “pentito” non aggiunge niente alla realtà. È stato lui a togliere la vita a Giulia, non un destino, non un raptus, non l’amore.
Giulia non è “una vittima”, è una donna uccisa da un uomo. Come ha ricordato più volte la sorella Elena Cecchettin, non si tratta di un dramma privato ma di un atto politico, perché ogni volta che una donna viene uccisa, lo Stato, la cultura, la società intera falliscono nel loro compito di proteggere.

Un silenzio che chiede risposte
La rinuncia all’appello è solo un atto processuale. Non cambia il senso profondo di questa vicenda, che resta come una ferita aperta. Il caso Cecchettin è diventato un simbolo, ma non dovrebbe esserlo: ogni donna dovrebbe poter vivere e amare senza paura di essere punita per la propria libertà.

La Convenzione di Istanbul ci chiede di prevenire, educare, cambiare il linguaggio e la cultura. Ma per farlo davvero servono politiche stabili, fondi certi, educazione affettiva nelle scuole, formazione capillare. Servono uomini che imparino a guardare alle donne come eguali, non come prolungamenti di sé.

Il silenzio che oggi accompagna questa rinuncia pesa più delle parole scritte nella lettera. È il silenzio che segue ogni femminicidio, quello che lascia la domanda sospesa: quante altre Giulia dovremo ricordare prima di cambiare davvero?

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