Assad, la diplomazia a sorpresa di un mondo in frantumi

- di: Bruno Coletta
 
Bashar al-Assad torna a parlare, e lo fa da Mosca, quasi come a voler scegliere con cura il palcoscenico di un’alleanza tanto solida quanto fragile nella geopolitica attuale. È una comparsa studiata, in un momento che definire delicato sarebbe riduttivo: la Siria, da teatro dimenticato del Medio Oriente, torna a essere un pezzo in gioco, incastonato tra le faglie di un mondo multipolare in frantumi.

Assad, la diplomazia a sorpresa di un mondo in frantumi

Dal podio russo, Assad non improvvisa, ma sussurra ciò che molti attendevano: l’avallo di Mosca come garante di un riequilibrio regionale, uno di quelli che, come spesso accade, si pagano in scambi di favori, gasdotti o qualche concessione militare. Eppure, sotto i riflettori spenti di una cronaca internazionale distratta, il presidente siriano rientra in scena come un uomo che ha attraversato il deserto – quello vero e quello politico – e ne è uscito vivo, perché funzionale a equilibri che contano più della sua reputazione.

I numeri del conflitto siriano restano una ferita aperta: centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e una nazione devastata, senza una ricostruzione economica e morale all’orizzonte. Eppure, Assad si ritrova ancora al suo posto, non per carisma o legittimazione popolare, ma perché, in questa fase storica, risulta ancora "utile". Utile a Mosca, che gli garantisce protezione, e utile persino ad alcuni interlocutori arabi che, con una realpolitik disinvolta, tornano a riabilitare Damasco.

Da Mosca, il messaggio di Assad è chiaro: la Siria è aperta a un dialogo, ma alle sue condizioni. A dettare la linea è sempre l’asse con Vladimir Putin, l’uomo che, nel 2015, è intervenuto con la forza a salvare il regime, strappandolo dalla disfatta imminente. Non è un caso che il discorso avvenga in Russia e non in un’altra capitale: Assad riafferma chi è l’unico vero garante della sua permanenza al potere. Con il Cremlino che, in cambio, si prende pezzi di Siria sotto forma di basi militari, porti strategici e legami energetici.

Ma questa narrazione non è priva di ombre. Mentre Assad parla, le macerie di Aleppo e Idlib restano una realtà tangibile per milioni di siriani. La stessa comunità internazionale sembra ormai relegata al ruolo di spettatrice passiva: le ambizioni unipolari dell’Occidente si sono infrante sulla resilienza del regime, spalleggiato dall’asse russo-iraniano.

Eppure, mentre Assad si muove, anche il resto del Medio Oriente cambia pelle. L’Arabia Saudita e gli Emirati tornano a corteggiare Damasco, con la speranza di contrastare l’influenza di Teheran; la Turchia di Erdogan tiene ancora la mano sul nord della Siria, ma con un pragmatismo che cede spesso al compromesso. E l’Europa? A guardare Assad parlare da Mosca, appare ancor più lontana e smarrita, chiusa in un isolamento che le sottrae ogni ruolo rilevante.

Assad parla dunque dalla Russia, non per se stesso, ma come simbolo di un ordine che cambia, in cui il Medio Oriente, con le sue guerre infinite e le sue alleanze di convenienza, è sempre il laboratorio dei nuovi assetti globali. Tra le sue parole e i silenzi degli altri, resta una certezza: chi vince non è sempre il più forte, ma chi sopravvive. E Assad, piaccia o meno, è ancora qui a ricordarcelo.
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