Dieci anni dopo la tragedia di Alan Kurdi il Mediterraneo continua a mietere vittime innocenti: memoria viva o indifferenza globale?
Era il quando la foto del piccolo Alan Kurdi — due anni e due mesi — disteso senza vita sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, diventò l’emblema delle tragedie del mare e della crisi migratoria. Quell’immagine, scattata dalla fotoreporter turca Nilüfer Demir, fece il giro del mondo, scuotendo governi e opinioni pubbliche.
Un simbolo eterno: così Alan Kurdi ha cambiato (temporaneamente) il mondo
Il gommone su cui viaggiava la famiglia era sovraccarico e inadatto a quel tratto di mare: pochi minuti dopo la partenza, si capovolse. Il padre sopravvisse; la madre Rehana e il fratellino Galip morirono insieme ad Alan. La scena, con la maglietta rossa e le scarpine allacciate, è entrata nella memoria collettiva non solo come cronaca, ma come accusa morale.
Nei giorni successivi, l’onda emotiva fu enorme. Si invocarono corridoi umanitari, piani di ricollocamento, una gestione più umana dei confini. Ma quell’impulso iniziale, pur decisivo nel cambiare per un periodo il linguaggio pubblico, non si è tradotto in riforme strutturali all’altezza delle rotte e dei numeri che continuano a mettere alla prova l’Europa.
Dieci anni dopo: memoria, impegno, disincanto
Nel decennale, torna una domanda semplice e scomoda: quanto è rimasto di quella consapevolezza? In molti invocano politiche di salvataggio coordinate, una vera responsabilità condivisa tra Stati e un linguaggio che non spersonalizzi chi fugge da guerre, dittature o miseria. Altri denunciano la distanza tra proclami e decisioni effettive, tra promesse e dotazioni reali per la ricerca e soccorso.
Il bilancio, per ora, resta durissimo: dal 2015 a oggi nel Mediterraneo sono morte oltre 28.000 persone, tra cui almeno 3.500 bambini. Numeri che impongono di capire perché le stesse dinamiche si ripetano — gommoni scadenti, giubbotti salvagente falsi o inutilizzabili, partenze in condizioni meteorologiche proibitive, criminali che speculano sulla disperazione.
Dichiarazioni che risuonano nel tempo
“Ho perso tutto e non ho più niente da chiedere alla vita. Ma i miei figli Alan e Galip, e mia moglie, non sono morti invano. In cuor mio sento che il mondo si sta svegliando e si sta rendendo conto del dramma della Siria e del bisogno di pace”, ha detto Abdullah Kurdi all’indomani del naufragio.
Quel messaggio — insieme a tante testimonianze di soccorritori e organizzazioni — continua a bussare alla porta dell’Europa: non trasformare la pietà in abitudine, non rimuovere il volto concreto delle vittime, non ridurre tutto a statistiche o a slogan.
L’eredità viva (e mutata) del piccolo volto sulla sabbia
- Impatto mediatico e politico immediato. L’immagine di Alan costrinse istituzioni e opinioni pubbliche a misurarsi con la rotta egea e mediterranea come emergenza non più eludibile.
- Simbolo universale. Il bambino divenne il “figlio di tutti”: una fotografia capace di parlare oltre lingue e confini. Ma un simbolo, da solo, non cambia i meccanismi che generano le partenze forzate.
- Azione o stagnazione? Alcuni Paesi introdussero misure più inclusive; in altri prevalse la chiusura. La dialettica tra sicurezza e diritti restò irrisolta, spesso piegata alle esigenze della politica interna.
- Guerra, immagini, desensibilizzazione. Le foto possono scuotere coscienze, ma col tempo rischiano di perdere forza. Il compito del giornalismo e della società civile è impedire che la sofferenza diventi rumore di fondo.
Un grido che resta vivo
Dieci anni dopo, la figura di Alan Kurdi non è solo un ricordo struggente, ma un monito: la tragedia del mare non è finita e vite innocenti continuano a spezzarsi. La memoria è un dovere pubblico: ricordare per cambiare politiche, pratiche e linguaggi; ricordare per salvare. Perché quel piccolo corpo sulla sabbia non resti un’icona, ma l’inizio di scelte diverse.