Salario minimo, Unimpresa: 85% contratti oltre 9 euro, rischio aumento sommerso

- di: Barbara Leone
 
E’ al centro del dibattito politico degli ultimi giorni, dopo che i vertici Ue hanno deciso di introdurre una soglia minima salariale nei Paesi membri lasciando, tuttavia, ad ogni singolo Stato la possibilità di legiferare al riguardo. Stiamo parlando del salario minimo, un argomento su cui già tempo fa si era espressa Unimpresa sottolineandone l’inadeguatezza ed i limiti. Ora l’associazione che rappresenta le micro, piccole e medie imprese italiane torna a ribadire, carte alla mano, il concetto. Sul totale dei 27 contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti e attualmente in vigore, sostiene Unimpresa, si registrano livelli di salario minimo in appena quattro casi. Il che vuol dire che oltre l’85% dei contratti firmati da Unimpresa stabilisce una paga oraria superiore a 9 euro. Più in generale, i ccnl presenti nell’archivio Inps per i dipendenti del settore privato hanno un livello di copertura estremamente elevato: riguardano, infatti, un totale di 1,5 milioni di datori di lavoro, pari al 99% delle aziende presenti in Italia, e di 14,7 milioni di lavoratori, pari al 97,6% della forza lavoro impiegata nel settore privato. È quanto emerge da un documento di Unimpresa sul salario minimo, secondo il quale a qualunque livello fosse fissato, un salario minimo in Italia inciderebbe, in misura particolare, sulle piccole e piccolissime imprese del Mezzogiorno. Con conseguenze che non è difficile immaginare: riduzione di manodopera oppure, in alternativa, ulteriore ricorso al sommerso. “A maggior ragione in un Paese come l’Italia - commenta il consigliere nazionale di Unimpresa Marco Pepe -, in cui persistono fenomeni degenerativi cui pare impossibile riuscire a porre freni, i più alti indici, tra i Paesi dell’Ue, di evasione fiscale, contributiva e lavoro sommerso.

L’eventuale determinazione di un salario legale troppo elevato - prosegue Pepe - correrebbe il concreto rischio di determinare, esclusivamente, ulteriore ricorso al lavoro nero e/o grigio; senza, peraltro, produrre benefici per quelle migliaia di lavoratori con contratti pirata o, addirittura, senza alcuna apparente garanzia contrattuale. Unimpresa - afferma Pepe - è contraria all’introduzione del salario minimo in Italia. Ciò perché la determinazione dei salari è rimessa alla contrattazione collettiva e il modello italiano di relazioni sindacali è caratterizzato da un elevato livello di pluralismo organizzativo per ciascun settore produttivo, sia dal lato dei lavoratori sia da quello dei datori di lavoro e abbraccia oltre il 70% della copertura contrattuale”. Il salario minimo, spiega Unimpresa, esiste in tutti gli Stati membri: in 21 Paesi esistono salari minimi legali (l’ammontare di tale valore minimo varia in maniera significativa, da 312 euro mensili in Bulgaria a 2.142 euro mensili in Lussemburgo), mentre in 6 Stati membri (Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) la protezione del salario minimo è fornita esclusivamente dai contratti collettivi. Dal documento di Unimpresa emerge che le differenze nella determinazione del salario minimo all’interno dei Paesi dell’Unione europea sono, quindi, di tutta evidenza, sia a livello economico-sociale complessivo (costo della vita, produttività, competitività e sviluppo), che a livello giuslavoristico tanto in relazione alle componenti della retribuzione quanto all’orario di lavoro e, partendo da tale situazione l’individuazione di un valore monetario unico, efficace, efficiente e congruo in tutta Europa, appare pressoché utopistica. Infatti, posto che la media salariale mensile degli Stati europei è pari a circa 924 euro, se il salario minimo europeo fosse calcolato in base a tale media, non troverebbe mai possibilità di approvazione, in quanto determinerebbe per molti paesi un incremento insostenibile del costo del lavoro e così la crescita del livello di disoccupazione, l’aumento del lavoro irregolare e la perdita di competitività.

“Diversamente - osserva il consigliere nazionale di Unimpresa -, se la soglia venisse fissata a un livello decisamente più basso, gli Stati economicamente meno sviluppati manterrebbero un certo spazio di manovra per portarsi al livello stabilito, ma con il rischio di una contrattazione al ribasso per i lavoratori dei Paesi più ricchi rispetto ai Paesi che ricchi lo sono meno. Sono proprio i Paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva ad avere una minore percentuale di lavoratori a basso salario, una minore disuguaglianza salariale e salari. Nella difficile ricerca di un giusto valore salariale minimo è doveroso ricordare - sottolinea ancora Pepe - che la determinazione di una tariffa troppo alta potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro e/o rappresentare un incentivo al lavoro irregolare, mentre una troppo bassa finirebbe per non garantire le condizioni di vita dignitose alle quali l’istituto è finalizzato. Pur stabilendo un valore più congruo, l’introduzione del salario minimo legale solleva, in ogni caso, molti dubbi sulla sua reale utilità. Nel contesto di una economia in costante trasformazione tecnologica e organizzativa, in un mercato del lavoro sempre meno ancorato a schemi tradizionali e standardizzati e sempre più indirizzato, pur nella forma comune della subordinazione, ad una maggiore flessibilità oraria e agilità delle modalità con le quali si rende la prestazione lavorativa, oltre che sempre più orientato a remunerare la professionalità dei lavoratori piuttosto che le qualifiche definite dai contratti collettivi attraverso premi di risultato anche convertiti in beni e servizi di utilità sociale ricompresi nel welfare aziendale ne discende che la misurazione del trattamento economico complessivo è sicuramente molto complicata.

Del resto - conclude Pepe -, nei Paesi che hanno già introdotto il salario minimo legale la questione dei lavoratori sottopagati e la diffusione di pratiche illegali sono, purtroppo, ancora presenti e ciò, nonostante l’incremento dei controlli tecnologici sui dati stipendiali fino ad arrivare all’applicazione di pratiche come il name and shaming con cui si denunciano pubblicamente le aziende che non rispettano i minimi salariali legali”. Nell’ordinamento normativo italiano, spiega ancora Unimpresa. la disciplina degli aspetti quantitativi e dei sistemi e criteri di calcolo della retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva che, integrata dall’autonomia individuale, comunque vincolata ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, e operante in chiave migliorativa, ne costituisce la fonte largamente preminente. La contrattazione collettiva assolve dunque al compito di garantire, soprattutto per i lavoratori professionalmente meno qualificati, un livello minimo di salario soddisfacente e dignitoso. Del resto, l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 della Costituzione ha finito per riconoscere ai trattamenti economici stabiliti dai contratti collettivi (minimi tabellari), pur carenti di vincolatività erga omnes, la natura di retribuzione costituzionale, tanto che in Italia è stata scarsamente avvertita l’esigenza che il salario minimo fosse, come accade in molti altri ordinamenti giuridici europei, garantito per legge.
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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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