La nostra biblioteca: Maya Binyam: "Hangman" - Un viaggio, tra dramma e umorismo, in un passato che non si riconosce più

- di: Diego Minuti
 
La letteratura americana continua a sfornare autori che, ancora prima di andare alla sfida delle vendite, si prendono l'attenzione della critica. Come sta facendo, in questi giorni, in America Maya Binyam che, con il suo ''Hagman'', romando di esordio appena editato da Mac Millan, sta mettendo in fila commenti a dir poco lusinghieri. C'è chi lo ha definito come ''un'avvincente storia di ritorno a casa e perdita, spietatamente onesta e sorprendentemente bella, profonda e indimenticabile"; chi ne parla come di un ''romanzo sottile e peculiare su cose sottili e peculiari: casa, esilio, ingiustizia, famigli, ritorno e la la vita stessa'' e c'é chi lo definisce semplicemente un  ''debutto straordinariamente magistrale, un romanzo pulito, tagliente, penetrante e profondamente politico''.

''Hangman'' (208 pagine) è il racconto del viaggio di un uomo - cui viene cucito addosso il ruolo di narratore sconosciuto, che si dimostrerà un elemento fondante del libro - che, dopo ventisei anni di esilio trascorsi negli Stati Uniti, torna a casa, in un Paese dell'Africa sub-sahariana, scoprendo di non conoscerlo più. Così come capisce di non conoscere più nessuno. Ma, in aeroporto, ecco la prima ''porta girevole'', con un uomo che lo chiama fratello e al quale confida lo scopo del suo viaggio: trovare il fratello che è in fin di vita. Un motivo tragico, ma che diventa per l'autrice quasi un pretesto per raccontare un viaggio in cui i toni del dramma si mischiano all'umorismo. Il viaggio, alla ricerca di sé stesso, prima ancora che degli affetti ormai appannati, diventa quasi un'odissea, esilarante e contorta, in cui si agitano personaggi reali o solo immaginati e l'umanità contorta che anima il percorso: operatori umanitari e tassisti, i parenti e gli enigmi, madri di figli non loro, che conducono il protagonista lungo un tortuoso percorso verso la verità, non necessariamente destinato ad avere un happy end.  

Cosi il narratore, ormai alla deriva emotiva, deve confrontarsi con chi incrocia lungo il viaggio, personaggi buoni, brutti o cattivi, accomunati apparentemente da un solo scopo: tutti vogliono raccontargli la storia della loro vita e lui presta orecchio alle interazioni che durano più a lungo di quanto intenda o desideri. E' qui che l'autrice mostra l'architrave del suo racconto, usando queste conversazioni tra l'uomo e l'eterogenea umanità che gli si pone davanti come veicolo per commenti politici acuti e riflessioni filosofiche su tutto, dagli aiuti esteri e l'ospitalità al rifugio e alla cura, all'ingiustizia e alla responsabilità sociale, alla vita e alla morte.

Ma, a differenza dei personaggi che incontra e che gli raccontano tutto, il narratore non offre molto di sé stesso in cambio. Lo stesso fa Binyam che semina indizi, come fossero briciole di pane che il lettore coglie solo retrospettivamente. 

Maya Binyam, in una intervista, ha spiegato il suo approccio al racconto, dicendo che per lei è diventata una sfida ''scrivere qualcosa che fosse esplicitamente letterario dal punto di vista di qualcuno che è un narratore estremamente riluttante della propria vita, qualcuno che è irremovibile sul fatto che il significato non esista. Questo non vuol dire che il libro sia privo di simbolismi. Ma mi interessava sapere come gli oggetti potessero acquisire un significato simbolico attraverso la ripetizione, apparendo in posti dove non dovrebbero essere''. 
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