La politica ostaggio della sindrome di Caligola (sempre che esista...)

- di: Diego Minuti
 
Caligola era un imperatore romano passato alla storia per le sue stranezze (tanto per non andare oltre). Aveva uno strano concetto del suo ruolo e di ciò che esso gli consentiva, anche se in fondo, a dispetto della vulgata popolare, non è che abbia fatto molto peggio rispetto ai suoi predecessori o di qualche successore. Fatto sta che è passato alla storia per quel nomignolo, legato ad una calzatura plebea che preferiva indossare, e per alcune stravaganze. Come quella - che lo rese amatissimo dai romani - di fare ripetute elargizioni al suo popolo, tanto da dilapidare l'enorme fortuna avuta in eredità.
Caligola - che, seguendo una tradizione legata alla carica, morì assassinato - è rimasto famoso anche per avere fatto eleggere senatore Incitatus, il suo cavallo preferito. Non perché lo ritenesse una eccezione del mondo animale, ma solo per mostrare, anche fisicamente, il suo disprezzo per una classe politica che riteneva corrotta.

La politica ostaggio della sindrome di Caligola

La premessa, per quanto possa apparire inutile o pedante, mi serve per cercare di definire, usando parole e concetti, quanto ci hanno costretto a vedere i nostri politici, ieri e anche oggi, immemori che sono lì, in parlamento, per rappresentare il popolo e le sue istanze, non certo per brigare e riempire caselle.
L'epilogo della strategia suicida di Forza Italia, che si è conclusa con l'elezione di Ignazio La Russa e la sconfitta della linea di Silvio Berlusconi, ha dimostrato, una volta di più, che c'è una certa politica che non riesce ad affrancarsi dalla liturgia del passato, quando alcune scelte venivano fatte al di là delle persone (diventate ministri o sottosegretari più per i pacchetti di voti che gestivano che per proprie capacità) e spesso solo perché chi indicava dei mediocri metteva in mostra il proprio potere. Cioè: tanto più impresentabile politicamente era il prescelto, maggiore era il potere che mostrava chi lo aveva indicato.

Per questo m'è venuto in mente Caligola e, semmai esiste, una sindrome a lui intitolata che sottolinei che troppo spesso la politica fa sfoggio dei suoi muscoli, cercando di imporre questo o quella a dispetto del suo profilo, personale e morale. In fondo nulla di nuovo. Però, sentendo Giorgia Meloni dire e ridire che, quando nascerà, il suo sarà un governo di alto profilo, ci si sarebbe aspettata, dentro il centrodestra, una chiamata alla coesione e alla ragionevolezza Non necessariamente condivise, ma forse imposte dalla strapotenza parlamentare di Fratelli d'Italia, che ha, soprattutto in questa fase, la forza dei numeri.
La scelta di Silvio Berlusconi di insistere soprattutto su un nome, sul quale Fratelli d'Italia ha opposto un no, potrebbe anche apparire come la determinazione ad affermare un principio: tra alleati non ci possono essere veti. Ma, allo stesso tempo, ha mostrato una insensatezza politica perché, pur di favorire quel ''nome'' - Licia Renzulli - affinché andasse ad occupare un ministero di peso, il partito forzista e il suo demiurgo hanno perso ogni credibilità.

Al punto che la scelta dei senatori di Forza Italia - ad eccezione di Berlusconi e Casellati - di non votare ha certificato, da ieri, come ormai la fiducia verso di loro, da parte dell'alleato di riferimento, è praticamente a zero. Eppure, davanti a questa prospettiva, Berlusconi ha insistito con un atteggiamento che, piuttosto che la sua forza, ne ha attestato la debolezza. Quell'incaponirsi su un nome, interpretando il ''no'' come un'offesa a lui e alla sua storia, è stato un errore politico dalle conseguenze inimmaginabili. Perché, anche se già stamattina i forzisti sembrano essersi rianimati e hanno ripreso a fare la voce grossa, resteranno sempre quelli che, per Licia Ronzulli, hanno rischiato di fare saltare un patto. Poi, però, non sappiamo sino a che punto in modo imprevisto, un manipolo di ''ignoti responsabili'' è corso in aiuto (quanto disinteressato lo sapremo nel tempo) del centrodestra, salvando per il momento il patto di coalizione. E Caligola m'è venuto in mente quando alla presidenza della Camera, ovvero la terza carica dello Stato (che negli ultimi decenni ha un po' svilito la sua importanza), è stato deciso di eleggere Lorenzo Fontana, leghista, una indicazione voluta da Salvini per riaffermare la propria leadership in seno al suo partito e il suo peso nella coalizione.

Nell'ultima distribuzione di ''incarichi e supplenze'', la Camera toccava alla Lega dopo che Giorgia Meloni ha deciso di ''coprirsi le spalle'', mandando La Russa a Palazzo Madama. Una carica istituzionale importante, troppo per evitare che in molti mugugnassero al nome di Fontana, di cui non è facile dimenticare le posizioni conservatrici, soprattutto sulle tematiche della famiglia e dell'aborto, oltre che delle battaglie di genere. Fontana, comunque, resta, oltre che un uomo di punta della Lega, un politico che sa cosa fare e quando farlo. Quindi difficilmente nell'esercizio della sua carica si farà condizionare dalle sue idee che non sono gradite a tutti. Ma la sua indicazione sembra volere imporre di dimenticare le posizioni estreme mostrate, che, statene certe, torneranno ad essere evocate alla prima occasione. Come accaduto in queste ore quando sono tornate a circolare sue foto con indosso una maglietta che reclamava la cancellazione delle sanzioni contro la Russia. Foto vecchie quanto si vuole, ma che qualcosa significano anche oggi.
Tra i tanti commenti alla sua elezione, forse Fontana - in questo delicatissimo momento politico - avrebbe fatto a meno di quello entusiastico di qualche associazione a favore della famiglia ''tradizionale'', che, in un clima da Vandea, ha immediatamente brindato facendo del neopresidente della Camera un paladino e non un arbitro terzo.
Tags: politica
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